Un Caravaggio che è fin troppo didascalico

Napoli, 1609. Caravaggio si rifugia presso la famiglia Colonna. Attende la grazie papale necessaria per evitare quella decapitazione alla quale è destinato dopo aver ucciso il rivale e amico Ranuccio

Un Caravaggio che è fin troppo didascalico

Napoli, 1609. Caravaggio si rifugia presso la famiglia Colonna. Attende la grazie papale necessaria per evitare quella decapitazione alla quale è destinato dopo aver ucciso il rivale e amico Ranuccio. Del resto, non era nuovo alle risse e a una vita disordinata. La Chiesa, però, vuol vederci chiaro, facendolo pedinare da un algido inquisitore che deve indagare non solo sul suo passato, ma anche sulle persone che lo proteggono. Soprattutto, per capire il perché di certe sue scelte «blasfeme» rappresentate nei quadri, come usare una prostituta per dipingere la Vergine Maria e un senzatetto per dare volto a San Pietro. Fino alla resa dei conti finale con il suo destino.

Peccato. Un'occasione persa che avrebbe permesso di raccontare in maniera più approfondita, attraverso la figura del pittore ribelle, la sua vena artistica e le sue scelte rivoluzionarie, a partire dal famoso innovativo uso della luce. Per questo, il titolo scelto per il film diretto (così, così) da Placido, L'Ombra di Caravaggio, sembra fatto apposta per sintetizzare quello che si andrà a vedere. Ovvero, con il solito stratagemma dell'indagine, ripercorrere, soprattutto, tra un flashback e l'altro, in modo fin troppo didascalico, la vita «sguaiata» e libertina, di Caravaggio, lasciando, però, troppo in ombra quella di pittore.

Ribadendo, all'infinito, la sua libertà artistica, il suo «dipingere il vero», l'idea di prendere, a modello, persone dalla strada, così da rappresentare il Divino, ma fermandosi alla superficie. Più facile leggere, tra le righe, una denuncia di Placido che sembra togliersi qualche sassolino, su certi stilemi del cinema italiano, fatti soprattutto di autocensure penalizzanti.

In tutto questo, anche lo stesso Scamarcio sembra portare avanti il compitino, senza mai essere calato fino in fondo nell'anima del Merisi, con imperdonabili romanismi come «Ma non dobbiamo scopà?» fatti pronunciare all'artista lombardo. Restano, comunque, da esaltare costumi, scenografia e, soprattutto, la fotografia giocata in chiaroscuro, di Michele D'Attanasio, che è quanto di più vicino all'essenza delle opere di Caravaggio.

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