Carcere e censura, quella scure contro gli storici «eretici»

Carcere e censura, quella scure contro gli storici «eretici»

Alberto Indelicato

Non è un momento favorevole agli storici. E si sa che quando gli storici sono perseguitati è la società ad essere malata, perché viene amputata della sua memoria. È ciò che avvenne nei momenti più bui dell’impero romano ed in altre epoche più recenti che preferiamo non ricordare. Il nostro secolo è forse uno di quelli in cui si cerca di spegnere ogni voce libera degli adepti della musa Clio? La risposta, purtroppo, rischia di essere dolorosamente positiva, e qualche esempio recente ce lo prova. No, non parliamo dello storico David Irving che si trova in una prigione austriaca, dove rischia di restare una diecina d’anni. La grave pena gli sarebbe inflitta per aver sostenuto in alcuni suoi libri delle idee certamente balzane e che si scontrano con infinite prove contrarie fondate non soltanto su documenti, ma anche su migliaia di testimonianze.
Sostenere che i milioni di ebrei morti nei campi di concentramento della Germania negli anni del nazionalsocialismo senza che Adolf Hitler, che quel regime aveva creato e di cui era l’indiscusso Führer, ne sapesse alcunché è ciò che si dice una affermazione senza capo né coda. Affermare d’altro canto che i milioni di ebrei spariti nei lager non sarebbero stati uccisi nelle camere a gas è indimostrabile a meno che non si spieghi come sia possibile eliminare grandi masse di esseri umani senza ricorrere a quel sistema o ad altri altrettanto crudeli ed atroci. Tuttavia tesi del genere sono state e possono sempre esser facilmente smentite da altri storici in un libero dibattito scientifico. L’arresto e la condanna di Irving ad una pena detentiva, lunga o breve, non ha senso anche perché non dimostra nulla sul merito della questione. L’episodio non è però sembrato molto grave, tanto è vero che non ha suscitato alcuna protesta... Molto più tragico è apparso invece quello che ha riguardato un altro storico, italiano e fornito di tutti i crismi accademici: il professor Luciano Canfora. La casa editrice tedesca Beck gli ha nientedimeno comunicato che non intende pubblicare un suo libro a causa delle tesi che egli sostiene e per i giudizi che egli dà di alcune personalità del secolo XX. In particolare per il professor Canfora la Polonia del 1939 meritava di essere invasa oltre che dai tedeschi anche dai sovietici, come in effetti avvenne, perché essa era «istericamente antisocialista».
Era questa, ne conveniamo, un’ottima ragione per invadere uno Stato, anche se in base ad essa sarebbe dovuto essere invaso ed occupato mezzo mondo. Ma non si poteva pretendere molto dal povero Stalin. Costui comunque fu, per Canfora, il «grande costruttore» non soltanto di un impero, che gli sarebbe sopravvissuto per quasi un quarantennio (prima di crollare nell’ignominia e nella miseria), ma anche per le sue ardite costruzioni intellettuali nel campo del diritto oltre che in quelli della linguistica, della genetica e in numerosi altri. Perché dunque l’editore tedesco si è rifiutato di far tradurre e pubblicare lo studio canforiano dal titolo La democrazia. Storia di una ideologia? Ci sembra chiaro: perché odia la cultura, perché non considera Stalin un genio ed un benefattore dell’Umanità, e forse anche perché è tedesco. Egli ignora che nelle scuole italiane si insegna che Stalin era stato «duro ma giusto» e che la Germania farebbe bene ad adeguarsi. Invece l’editore Beck ha esercitato un’odiosa censura nei confronti di Canfora.

Bisogna che tutti gli uomini liberi si mobilitino non per chiedere che Irving esca dalla prigione austriaca, scriva quel che vuole e sia contestato dagli storici, ma che le opere del professor Luciano Canfora - specie quelle che cantano i meriti del comunismo passato presente e futuro - siano tradotte obbligatoriamente in tutte le lingue del mondo. Solo così l’Europa del XXI secolo potrà liberarsi della cappa della censura che soffoca il libero pensiero.

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