Caro Monicelli, non c'era niente da ridere

Come non dare ragione a Mario Monicelli, che in un'intervista ieri sul Corriere della Sera lascia intendere di non vedersi intorno molti eredi della commedia all'italiana? A Muccino caustico egli concede al più di fare dei film simpatici, ma se ne distingue con ogni cura. Né va meglio poi alle presunzioni filmiche di Moretti o degli altri. Troppo celebrali, essi sono del resto incapaci di quella grazia complice che ha reso possibili commedie perfette come i Soliti Ignoti. E Monicelli ha certo ancora ragione nel dire che, seppure qualche bravo regista giovane ancora ci sia, ormai l'Italia è troppo diversa, «diventata così informe... C'è una tale involuzione morale, etica che un autore non sa cosa raccontare». Verissimo.
Eppure quest'Italia così diminuita è anche un esito della commedia all'italiana. Essa infatti s'estese ben oltre gli ambienti picareschi dei ladri di periferia. Fu anche critica, derisione sistematica di ogni dignità residua o memoria delle sue classi dirigenti. Filtrate ad arte sempre e comunque nei peggiori archetipi di Sordi e Tognazzi con sistematicità di anni. Insomma l'involuzione morale che Monicelli lamenta è, io direi, in qualche misura figlia anche della corrosione della commedia all'italiana.
Si pensi solo a come fu insegnato a ridere agli italiani in quel film La Grande Guerra che rese a Monicelli un Leone d'Oro. La retorica non sarà stata una bella cosa. Ma in quella guerra tantissimi italiani e soprattutto giovani, colti o poveri, avevano creduto. E s'erano comportati con onore, convinti fino alla morte. Certo che essa era stata anche una tragedia. Ma c'era negli umili l'orgoglio epico d'averla vissuta e vinta per la patria. Ma di essi si tenne poco conto nel film di Monicelli del 1959, che quella tragedia riscrisse e diminuì. Riducendola al filtro di due guitti, eroi del sotterfugio e della morte per sbaglio. Ed infatti Emilio Gadda, che la Grande Guerra l'aveva fatta e patita ben altrimenti, molto se ne sdegnò: «Nessun pubblico francese o tedesco riderebbe a quel modo se i sacrificati, se i nomi in gioco, fossero di Francia o Germania».
Ma è solo un esempio tra i molteplici di come la commedia all'italiana servì a far ridere l'Italia di quanto non si doveva ridere. Aristotele nel genere comico riconosce il fine di una diminuzione. Il cinema la applicò alla patria, alla famiglia, alla impresa, alla scuola, e ovunque servì a corrodere ogni morale più alta. A filtrare sempre tutto coi peggiori. Fu un cinismo di cui un'Italia già fragile non aveva certo bisogno. Nei cinema si ritualizzò la derisione dei sacrifici di chi invece alla famiglia, alla patria, all'impresa ci credeva. S'aiutò a rendere più cinica, immemore del suo meglio, tutta una nazione, e soprattutto i giovani. Ma la comica compiacque ovviamente le sinistre: esse avevano il loro fine nella distruzione di ogni altra élite che non fosse la loro. Col risultato però evidente oggi pure a Monicelli: questa cultura di senza talento, ma spocchiosi, in una società sempre più informe, esausta, senza più forze spirituali.

Eccoli sono i figli di sinistra politicamente corretti, e creati pure dagli archetipi mostruosi con cui la commedia evolvette a critica sociale. Ed educò ad un plebeo materialismo, utile per il Pci. Ma disutile all'Italia, regredita alla nazione di guitti e infidi che era prima del Risorgimento e che infine è tornata a essere oggi.
Geminello Alvi

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