In Francia, Jean Giono è la gloria locale di Manosque e una gloria nazionale. Nacque in questa graziosa cittadina dell'Alta Provenza nel 1895, vi morì nel 1970, abitò lì per tutta la sua vita. Dal 1930 sempre nella stessa casa, Lou Paraïs, una vecchia batisse del XVIII secolo, acquistata con i proventi del suo primo romanzo, Collines, Colline, subito adattato per il cinema da Marcel Pagnol, altro nume tutelare della regione. La casa sta in montée de Vraies Richesses, un nome significativo per chi, come il suo proprietario, era stato per la prima metà della sua vita un impiegato di banca... Dal cancello puoi vederne il giardino, ancora bello, ma abbandonato, le persiane verde pallido, i muri color rosa. È definitivamente sbarrata dall'ottobre dello scorso anno, ma sette anni prima la figlia, Sylvie Durbet-Giono, l'aveva venduta al Comune, dopo che alla morte del padre e per i successi quaranta e passa anni ne aveva garantito l'accesso gratuito agli studiosi e agli appassionati dell'opera dello scrittore: lì sono custoditi i suoi archivi, nonché la sua biblioteca, circa 8mila volumi, di cui però il Comune non aveva voluto farsi carico e che quindi, in concomitanza alla vendita, erano stati acquistati a parte dall'Association nationale Amis de Jean Giono. L'accordo, insomma, era che lamministrazione di Manosque trasformasse l'abitazione in museo, ne garantisse l'apertura nonché la manutenzione.
Nei giorni scorsi il quotidiano Le Figaro ha raccolto il grido di dolore di Sylvie Durbet-Giono. I muri interni di Lou Paraïs sono impregnati di umidità, i libri di muffa, i tappeti di tarle, niente luce, niente acqua, ruggine un po' dappertutto, una statua rappresentante la divinità egizia Horus, il dio del cielo e degli spazi celesti, in pezzi. «In breve - ha detto la figlia di Giono - un totale abbandono, al limite della rovina».
Ne è seguito un dibattito dal sapore squisitamente provinciale, in cui il giovane sindaco di Manosque ha in pratica accusato la figlia di Giono di aver venduto alla precedente amministrazione una proprietà già degradata e di averla venduta a un prezzo esoso, oltre 600mila euro... Ha fatto poi sapere di aver passato l'intera pratica all'istituzione cui compete la gestione dei beni culturali locali, scaricando perciò la sua giunta quanto ai ritardi e alle eventuali inadempienze. I lavori per riportare la casa all'antico splendore, ha in ultimo reso noto, partiranno alla fine dell'anno, grazie anche a nuovi investitori, pubblici e privati, locali e nazionali, da lui stesso trovati. «Di tutto questo -ha tenuto a precisare- Sylvie Durbet-Giono è stata sempre regolarmente informata».
Come sempre accade nelle diatribe dei piccoli centri, la controreplica non si è fatta attendere: Sylvie Durbet-Giono ha tenuto a puntualizzare che finché c'era stata lei la casa era in perfette condizioni, come da foto e testimonianze di chi l'aveva frequentata, che i nuovi finanziamenti riguardavano la costruzione di una sala d'attesa e di una biglietteria nel giardino, considerate prioritarie rispetto ai lavori di restauro: «È un po' come mettere il carro davanti ai buoi» ha riassunto. E poi ha infilato l'ultima stoccata: «La notorietà di mio padre non viene intaccata da questa situazione. Essa ha ormai superato da molto tempo i limiti della sua città natale. È Manosque che risentirà di questo disprezzo verso l'uomo che, grazie alla traduzione delle sue opere, ha fatto conoscere il suo nome nel mondo intero». Fine della polemica. Per ora.
Jena Giono è uno noto e amato anche in Italia. L'uscita, ancora lo scorso anno, del suo Il disastro di Pavia (Settecolori), il racconto della sfortunata discesa di Francesco I in Italia, ha avuto tre ristampe in pochi mesi e la stessa casa editrice annuncia per il prossimo inverno la prima traduzione italiana di Le Chant du monde, Il canto del mondo, che fra i romanzi di Giono è considerato una sorta di manifesto ecologista, nel senso di una natura selvaggia e fiera, non addomesticata, bella eppure terribile per gli uomini che la vivono al ritmo delle stagioni, del lavoro manuale, della terra e dei suoi pascoli, orgogliosi e tenaci, capaci di grandi amori come di grandi odii... Già, perché la Provenza di Giono non è quella del sole, delle cicale e del pastis, delle calanques e dei clan dei marsigliesi, delle infradito e di Saint-Tropez... È una regione aspra e collinare, di fiumi e di sorgenti; l'ha raccontata come un forsennato della scrittura: «Tutti i giorni per tutto il giorno». Si sedeva alla sua scrivania e lì lavorava con «la gioia di un boscaiolo e la pazienza di un insetto».
Figlio di un calzolaio e di una stiratrice, per tutta la sua vita Giono fu l'esatto contrario di tutto quanto si poteva identificare con la società letteraria del suo tempo, e in fondo d'ogni tempo. Si recò a Parigi per la prima volta che aveva trentacinque anni e solo per firmare le copie-staffetta per la stampa di Colline, il romanzo che gli diede la notorietà. Dopo di allora, ogni volta che doveva tornarci era una sofferenza... Il nonno era stato un «piemontese, carbonaro, ufficiale», costretto a lasciare lItalia per la Francia in quanto «condannato a morte in contumacia per aver cospirato contro le vigliaccherie della sua epoca». Sarà lui l'ispiratore di quello che è uno dei suoi romanzi più belli, L'ussaro sul tetto, la rivelazione per molti versi di un altro Giono, «un suo fratello che si chiama Jean Giono», come commenterà Roger Nimier, che aveva deciso di dedicarsi alla ricerca della felicità
La Prima guerra mondiale lo vide soldato di seconda classe: restò ferito a Verdun e da quell'esperienza trasse un romanzo, Le grand troupeau, Il grande gregge, dove evocava l'orrore della guerra di trincea, e un pacifismo a cui restò sempre fedele, anche a costo di finire in prigione, nel 1939, l'anno della mobilitazione generale, con l'accusa di propaganda antimilitarista
Scrittore originale nello stile, e però imbevuto della lettura di Virgilio, Melville, Whitman, il tema della natura ebbe in lui una sorta di vena predicatoria. Del prima ricordato Il canto del mondo, disse che aveva voluto scrivere «un libro che contenesse montagne inviolate, con terre, foreste, neve e uomini inviolati. Ci sono tutte queste cose. Sono individui sani, onesti, forti, duri, fedeli. Vivono le loro avventure. Solo loro conoscono le gioie e le tristezze del mondo».
Morì a 75 anni, senza che la società letteraria francese gli avesse mai veramente perdonato il suo caparbio attaccamento alla terra e la propria autonomia di giudizio, il rifiuto di qualsiasi ufficialità come di qualsiasi compromesso.
Morì, lo abbiamo detto all'inizio, lì dove aveva sempre vissuto, in quella Manosque in cui tutto parla ancora di lui e che nei suoi libri continua a riverberarsi. Le amministrazioni comunali passano, e poco importa quali disastri piccoli e grandi, politici, economici, d'immagine possano fare. Jean Giono resta.
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