A casa Praz, dove la vita è sogno

Riapre al pubblico, restaurata, l'abitazione del grande critico: un luogo delle meraviglie

A casa Praz, dove la vita è sogno

Esiste una celebre serie di fotografie di Gianni Berengo Gardin intitolata «Dentro le case». Una fu quella di Mario Praz. Didascalia possibile: «Questo e non altro è, nella sua ragione più profonda, la casa: una proiezione dell'io; e l'arredamento non è che una forma indiretta del culto dell'io». Che dice già tutto su Mario Praz e sulle sue case.

Critico letterario e temuto anglista, accademico dei Lincei e grande scrittore di cose politiche, traduttore e giornalista (anche per il Giornale, negli anni Settanta, chiamato da Indro Montanelli), e in qualche modo anche artista: collezionare mobili, quadri e objets d'art è una forma d'arte, Mario Praz passò da due case. Entrambe a Roma, dove nacque e morì, nel 1896 e nel 1982. La prima fu un appartamento dentro Palazzo Ricci, abitato dal 1934 al 1964, quando, dopo una rapina in casa vissuta in prima persona, capì che il tempo di Via Giulia era finito: è lì che scrisse il memory journal, uscito nel 1958, La casa della vita (un libro così bello da arrivare tra i finalisti del Premio Strega, sconfitto solo da un romanzo inarrivabile, Il Gattopardo). La seconda, dove si rintanò dalla metà degli anni Sessanta alla morte, è in via Zanardelli, all'imbocco del ponte Umberto I, al terzo piano di Palazzo Primoli, poi acquistata con tutti i suoi arredi dallo Stato italiano nel 1986, pagando agli eredi due miliardi e cento milioni di lire.

Benvenuti nell'ultima casa Praz. Eccolo il suo regno. Ed ecco i suoi tesori raccolti nel corso di un'esistenza dedicata al Bello, al raro, all'insolito da un uomo riservato che all'apparenza era solo un professore di Letteratura inglese e che invece fu un Signore del Gusto, collezionista elegante e grande esperto di antiquariato. Qui sono esposti 800 oggetti di arredo (su una collezione di oltre 1200) portati a Roma da ogni parte d'Europa e che coprono il periodo che va dall'età napoleonica al Biedermeier: mobili soprattutto (tra cui i divani Regency, le consolle neoclassiche, le specchiere, i putti rococò e la sua «bella scrivania Impero, un mobile tutt'altro che facile a trovare; per me è stato, se non l'ultimo, uno degli ultimi a entrare nella mia casa») e poi sculture, dipinti, tappeti, lampadari, bronzi, cristalli, porcellane, miniature, ventagli, merletti, lacche, porcellane, acquerelli, stampe, argenti e marmi oltre alla sua impressionante biblioteca. E poi il contenuto più prezioso. Il silenzio.

Che fu interrotto, per una breve stagione, quando negli anni Settanta Mario Schifano prese in affitto l'appartamento di mille metri quadrati all'ultimo piano del palazzo. Cene, feste, vita pop e beat, televisori accesi 24 ore su 24, donne, urla e l'artista che girava per l'appartamento con la bicicletta regalatagli da Felice Gimondi... Una storia così surreale che Luchino Visconti se la rubò per girare nel 1974 il film Gruppo di famiglia in un interno: un Professore, Burt Lancaster, che vive in un antico palazzo romano ricco di arredi preziosi e libri antichi, e il giovane dissoluto, Helmut Berger, che bivacca al piano di sopra con i suoi indemoniati compagni...

Il sacro e il profano.

La carne, la morte, il diavolo, il silenzio, il museo dell'anima, l'archivio dei ricordi, l'ossessione collezionistica, il suo amato Shakespeare. Ecco cosa c'è in queste meravigliose stanze. E l'avevamo perduto. Visitabile solo due giorni alla settimana e poi con l'emergenza Covid chiusa al pubblico dal 2020, la casa-museo di Mario Praz ieri, grazie all'intervento del Ministero della Cultura, ha riaperto al pubblico, alla presenza del Ministro Gennaro Sangiuliano, il quale ha festeggiato il prezioso tassello restituito al nostro patrimonio culturale e ricordato «l'anticonformismo di Praz e la sua posizione di osservatore distaccato, propria del conservatore».

La casa, che ora è visitabile gratuitamente sei giorni su sette, è stata al centro di un lungo lavoro di restauro e ripulitura degli ambienti. I servizi sono stati rinnovati e messi a norma. Il tetto del palazzo è stato rifatto e i solai di copertura risanati. È stato risistemato il parquet rovinato. Sono stati eseguiti interventi di incollaggio, spolveratura e sopratutto sono state restaurate molte opere, come la bellissima cartonniere con i faldoni che contengono le carte autografe del Professore (bozze dei suoi saggi, appunti e note, tra cui l'inventario originale delle opere della collezione che Praz curava personalmente) mentre altri pezzi vengono ora esposti per la prima volta. Un tavolino da lavoro d'epoca napoleonica decorato con ricami, un «Genio alato» in terracotta di produzione inglese dell'inizio dell'800, un rubinetto a forma di cigno, finora rimasto in deposito... Come dice la direttrice della casa-museo, Francesca Condò: «Il Professor Praz sarebbe contento. Abbiamo risistemato tutto senza spostare nulla: la magia delle sale è rimasta identica».

Se le case riflettono il carattere, i gusti e le inclinazioni dei loro abitanti, la casa di Mario Praz - studioso sì, ma anche un instancabile viaggiatore, lettore di filosofia e lui stesso arredatore - custodisce intatto anche lo spirito di un'epoca. Quella che aveva cura per il dettaglio. Che sapeva scegliere la disposizione di ogni oggetto sulla base di rispondenze non solo estetiche ma anche intellettuali. Che sapeva concepire uno spazio privato come un luogo delle meraviglie. Wunderkammer.

E così da oggi sarà più facile sentire di nuovo vicina una delle personalità meno incasellabili e culturalmente più vivaci del nostro Novecento, un intellettuale - come ricordava Montanelli, che lo conobbe bene - «che non era né di destra né di sinistra. Per questo, naturalmente, non trovò - in questo Paese fazioso - nessun protettore né complice, ma nemmeno nessun nemico e detrattore». La sua cultura non era fatta di specialismi ma di mille curiosità: nelle sue lezioni si intrecciavano le letterature europee, l'arte, il giardinaggio, l'iconografia... Il suo occhio curioso non escludeva nulla: dipinti, gioielli, stoffe, libri, fotografie, un astuccio di madreperla... La sua prosa - come sa chi lo ha letto - è quanto di meno accademico esista in Italia: cristallina, pulita, essenziale, «inglese». E la sua cultura senza confini, né geografici né temporali.

Un uomo perso nei labirinti di una Bellezza che si era costruito tutto attorno.

Come recita l'epigrafe di Casa della vita, che rubò ai Souvenirs di Alberto Savinio: «L'uomo passa e il mobile rimane: rimane a ricordare, a testimoniare, a evocare colui che non è più, a svelare talvolta alcuni segreti gelosissimi, che la faccia di lui, il suo sguardo, la sua voce celavano tenacemente».

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