Caso Tucker, 8 indagati: seviziavano i piazzisti per farli vendere di più

Le violenze erano fisiche e psichiche. Quasi duemila gli episodi

Silvia Gilioli

da Rimini

Per loro qualsiasi mezzo era lecito per convincere i venditori a fare al meglio il proprio lavoro. Nessuno poteva avere dubbi: sul tubo Tucker nessuno poteva fermarsi. L’imperativo era vendere e far vendere, perché lievitasse in tutti i modi il fatturato dell’azienda. A Rimini continua l’inchiesta sulla vicenda Tucker, il marchio del tubo contestato: molte perizie hanno dimostrato la sua inefficacia, alcune di parte invece ne sostengono qualche fondamento scientifico.
La Procura ha indagato per associazione a delinquere finalizzata alla truffa otto persone, per le quali il pm Francesca Zavaglia ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio al gip del Tribunale di Rimini. È l’atto finale dell’indagine cominciata tre anni fa. L’8 ottobre 2002 furono arrestati il titolare della Tucker, Mirco Eusebi, marchigiano di Macerata Feltria, la sua compagna Ivana Ferrara e sei collaboratori strategici: Simone Ambrogiani, Serenella Pierfederici, Osvaldo Salvi, Iano D'Altri, Emanuele Baroni e Dario De Bon. Altre quarantotto persone vennero accusate di semplice truffa: furono i protagonisti delle convention, i meeting dove si arruolavano nuovi adepti. In tutto dunque gli indagati sono cinquantasei e fra questi trenta, più della metà, sono accusati anche di violenza privata, per quei metodi così poco ortodossi usati per pungolare chi faceva parte dell’organizzazione.
Si parla di sevizie fisiche e psichiche, perpetrate in gran parte nell’agriturismo La Casella, in provincia di Terni, dove furono brutalizzati gli elementi meno produttivi dell’organizzazione, nel corso di cosiddetti seminari che di formativo avevano davvero poco.
La Procura ha vagliato attentamente tutte le richieste di costituzione di parte civile, ammettendo ben 1940 denunce. Spetterà ora al gip decidere sull’ammissibilità di queste richieste. Altre 400 rimangono fuori per avere presentato la querela oltre i termini di legge. È tutta gente che ha pagato tra i mille e i diecimila euro per diventare promoter della Tucker, ricevendo in cambio dei soldi alcuni tubi Energy Saving da rivendere successivamente in franchising.
Altri cinquanta venditori hanno invece scelto di rivalersi su Eusebi e soci in sede civile, dove la Tucker Spa è rappresentata dall’avvocato Giuliano Zamboni di Bologna.
Si annuncia comunque un altro processo fiume, modello Vanna Marchi, perché anche in questo caso la vicenda è stata evidenziata soprattutto da Striscia La Notizia. Qui tutto ruota attorno a quel tubo presunto miracoloso reclamizzato dalla Tucker. Il dispositivo era accreditato di un notevole risparmio energetico nel riscaldamento di case e uffici e anche di benefici non indifferenti per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico prodotto dal gas metano e dal combustibile utilizzati. Secondo la perizia dell’azienda, un generatore di calore senza Tucker presenta maggiori consumi e crea maggiore fumosità. «Con l’utilizzo del Tucker - si legge sul sito - l’aumento delle Kcal/h è stato stimato nel 40%, con una contemporanea diminuzione del consumo dell’1,9%». Oppure, sempre grazie al tubo, «un risparmio di combustibile del 20%, con una temperatura superiore». Il 7 novembre 2002, un mese dopo gli otto arresti, il garante della concorrenza e del mercato stabilì che la pubblicità del prodotto era ingannevole, eppure gli spot continuarono a essere diffusi sul sito internet aziendale. Mirco Eusebi e signora restarono in prigione sino alla fine del gennaio 2003, poi agli arresti domiciliari per due mesi. A fine ottobre di quello stesso anno il gip ordinò alla Guardia di Finanza di sequestrare tutti gli immobili e le automobili della Tucker, per un valore di due milioni e mezzo di euro.


Il tribunale del riesame di Rimini si oppose all’istanza della Procura di Rimini, accolta invece due mesi fa dalla Cassazione. Così si è proceduto al sequestro preventivo di tre milioni e mezzo di euro e del rimborso dell’Iva richiesto dalla Tucker dopo l’adesione al condono tombale.

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