Catalogo delle tristezze in cerca d'autore

Dal "dès vu" all'"amoransia", John Koenig dà un nome ai nostri stati d'animo malinconici

Catalogo delle tristezze in cerca d'autore

Essere tristi: quante volte lo siamo al giorno? Ma di cosa siamo tristi? Triste in fondo è il nome di un'emozione precisa ma anche molto vaga, molte tristezze non sapremmo come definirle. Però ci viene in soccorso John Koenig con il suo Dizionario delle tristezze senza nome, appena pubblicato da Mondadori (pagg. 400, euro 17,50), e ognuno può fare l'esperienza di dare un nome a una tristezza, sentendosi meno solo. A volte sentiamo di averle spesso, a volte no, io ho fatto l'esperimento su me stesso. Sappiate che le parole non esistono, le ha inventate lo stesso Koenig spiegandovene l'etimologia voce dopo voce, mettendo insieme lingue vive e morte e riferimenti culturali di ogni tipo.

Credo che Alessandro Gnocchi mi abbia suggerito di leggerlo proprio per questo: io sono un test perfetto, vivendo di ansiolitici e antidepressivi, ma ognuno di voi troverà le sue tristezze a cui prima non aveva mai pensato di dare un nome. Sono sicuramente affetto da dès vu, che sarebbe «la consapevolezza che il momento che stai vivendo diventerà un ricordo». È l'incapacità di vivere il presente. Soprattutto adesso che ho una figlia che amo visceralmente, vivo ogni suo momento come il suo passato che un giorno ricorderà, magari quando io non ci sarò più, e anche quando lei sarà cambiata, e dopo gli undici anni il cambiamento avviene di giorno in giorno, non la vedo crescere, vedo che tutto invecchia.

Ma come non sei felice? A volte, ma soffro di kairosclerosis, secondo il termine coniato da Koenig, ossia proprio quando ti accorgi che sei felice ti accorgi anche della fugacità della felicità, motivo per cui vedo come modo di salvarmi dalla kairosclerosis una futura e più banale arteriosclerosi. Per il momento attuo quello che Koenig ha definito il cullaways, «la dispersione dei ricordi che il tuo cervello si impegna a dimenticare in ogni momento, cancellandoli uno dopo l'altro senza alcun suggerimento da parte tua». In realtà non lo faccio in maniera inconsapevole, piuttosto come Andy Warhol: «Sono un registratore con un solo tasto, con su scritto CANCELLA».

Anche perché più si va avanti con l'età più ci si trova immersi nella zenosYne, ossia «la sensazione che il tempo stia scorrendo più velocemente, che ogni anno valga un po' meno del precedente; quando i tuoi vent'anni entrano vorticosamente nei trenta senti che il cerchio comincia a restringersi e, tutto d'un tratto, ti rendi conto che il cerchio è una spirale, e che tu sei già a metà strada». È quando cominciamo a dire «sembra ieri» e sono passati dieci o venti anni.

Non ho mai provato il foreclearing, ovvero «il rifiuto deliberato di apprendere spiegazioni scientifiche delle cose per paura che sciupino la magia», anzi, al contrario, mi piace dare spiegazioni scientifiche a chi ha il foreclaring, per sciupargli la magia, e ciò mi rende allegro. L'amoransia, cioè «il brivido melodrammatico di un amore non corrisposto, il desiderio di struggerti per qualcuno che non potrai mai avere» ce l'ho avuta, per Sasha Grey, e lei non ha mai saputo neppure della mia esistenza, nonostante l'abbia anche resa l'eroina di un mio romanzo. Il moledro non è una malattia infettiva, ma «la sensazione di un importante legame con un autore o un artista che non incontrerai mai, che può essere vissuto anche secoli prima di te o a migliaia di chilometri di distanza ma che riesce ancora a entrarti nella testa», facile, ce l'ho, per Marcel Proust e Freddie Mercury.

Bellissimo il McFly effect, perché l'autore ha coniato il termine da uno dei miei film preferiti in assoluto: Ritorno al futuro, riferendosi quindi a Marty Mc Fly, che sarebbe «il fenomeno dell'osservare i tuoi genitori mentre interagiscono con persone che conoscono fin dall'infanzia, il che fornisce una versione delle loro personalità e ti offre uno scorcio dei tipi sognatori e bricconcelli che erano un tempo, prima che tu entrassi in scena». Straniante, anche perché ti rendi conto che tu non esistevi e loro sì, e loro non erano neppure loro. Koenig dice che proviamo una tristezza perché come McFly avremmo voluto essere lì a vederli, io sono peggio: fossi stato al posto di McFly avrei cercato di non farli mai incontrare. Perché, leopardianamente, «è funesto a chi nasce il dì natale», e stavo così bene prima, quando non c'ero (e credo anche il mondo senza di me).

Non soffro di hobsmacked invece, ossia del diventare «improvvisamente consapevole di quanto sia limitata la tua cerchia sociale; del fatto che, sebbene l'ambiente che ti circonda ti sembri un microcosmo della società, in realtà è più simile a una busta piena di pesci esotici che galleggia sulla superficie di un enorme acquario brulicante di sottoculture misteriose che ti sbalordiranno quando le vedrai da vicino».

Ma non scherziamo, ci ho messo cinquantadue anni a trovarmi i miei pesci esotici, figuriamoci se ho voglia di andare a cercarmene altri e pure di restarne meravigliato. Stiano a brulicare dove sono, io non esco di casa e non sono un pescatore sociale, questo sì che mi rende meno triste.

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