É sera quando dalla Farnesina parte una nota in cui si invita allo stop di ogni violenza, ma anche al rispetto «delle libertà» inclusa quella di manifestare. Ma l’ordine (non scritto) partito da qualche giorno da palazzo Chigi e dal ministero degli Esteri impegna la diplomazia italiana - e non solo lei - a studiare al microscopio quel che sta avvenendo in Egitto, ma anche in Tunisia e nel resto del Maghreb. Eccettuato il Marocco del resto, dove Mohammed VI è molto amato, e con la Libia arroccata nel suo splendido isolamento, tutto il Mediterraneo del Sud è in fiamme. E per chi, come il nostro Paese, ha destinato uomini, tempo e soldi a far crescere i rapporti diviene inevitabile interrogarsi con un pizzico di preoccupazione sul futuro di chi risiede sull’altra sponda del Mediterraneo.
Non è un mistero per nessuno che i nostri governi abbiano da tempo intrecciato rapporti con chi deteneva il potere al Cairo, a Tunisi, ad Algeri e a Tripoli, anche se spesso erano e in qualche caso restano espressioni di dittature «popolari». Andreotti negli anni ’70 dialogava con Gheddafi che pure aveva cacciato dalla Libia migliaia di italiani. Gianni Agnelli non ebbe alcun imbarazzo ad accettare danaro libico in Fiat. Con Nasser prima, Sadat poi i contatti dei governi di Roma erano frequenti per non parlare dell’Algeria dove l’Eni e altre aziende statali italiane cercavano di farsi spazio a danno dei francesi, coi quali Ben Bella prima e Boumedienne poi, mantenevano rapporti freddi. Logico dunque che oggi si sia dato ordine di drizzare le antenne. Anche perchè non bisogna scordare come, proprio negli ultimi anni, la sponda Sud del Mediterraneo, oltre che come fornitore di petrolio e gas, sia divenuta una sorta strategico hub per le merci dirette in Europa da Cina ed India.
Da anni Bruxelles - con l’Italia impegnata nella stessa direzione - ha cercato di intensificare i rapporti sul versante arabo. Aumentando gli aiuti, sollecitando azioni comuni, cercando di individuare terreni strategici di intesa (dalle energie innovative alla lotta all’immigrazione clandestina). Il problema era costituito dal fatto che queste relazioni dovevi necessariamente tenerle con rappresentanti di esecutivi che non si sono mai mostrati eccessivamente sensibili ai temi della democrazia. Per cui non era infrequente che i tunisini piuttosto che gli egiziani vedessero nella Ue un «complice» delle dittature che li opprimevano piuttosto che un garante dei loro diritti. Tant’è che nell’Africa del Nord l’idea della comunità è ancora sfocata, mentre si privilegiano i rapporti coi singoli Paesi del vecchio continente dei quali l’Italia risultava tra i preferiti. E infatti, se restiamo al solo Egitto, il nostro paese è il primo partner commerciale dell’Europa (e secondo in assoluto): l’interscambio è raddoppiato negli ultimi 3 anni, raggiungendo i 5 miliardi di euro. Esportiamo macchinari e beni strumentali. E importiamo prodotti energetici ed agricoli. Ma non è tutto. Sono più di 500 le aziende che attualmente lavorano nella terra dei Faraoni, di cui ben 200 piccole e medie. Ma ora si pone un problema, di tutt’altra natura rispetto a quello di investire o programmare. C’è il futuro politico di alcuni paesi in ballo, con i rischi (l’integralismo islamico) e le potenzialità (la nascita di una vera democrazia in un paese musulmano) che i comportamenti di queste ore possono determinare. Scontato dunque che dalle cancellerie della vecchia Europa, si inviti Mubarak a non vietare le manifestazioni di protesta. O che si approfitti di una cacciata come quella del tunisino Ben Alì per sancire la rottura con il suo regime, come sancito da Sarkozy.
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