Cesare Pavese, la rivoluzione in forma di mito

Chi è davvero Cesare Pavese? Può la cultura italiana dimenticarlo senza amputare una parte vitale, oscura, drammatica di sé? L’autore di Lavorare stanca è un autore adolescente, uno di quelli che i ragazzi leggono per entusiasmarsi, disperarsi, piangere. Adolescente al punto da innamorarsi continuamente e di donne sbagliate, al punto da scrivere ad una di esse che, «non ballando e non guidando» è destinato a restare sempre un perdente. Si ritrova in affermazioni così il sapore di tante tristezze sanguinanti, come solo nella prima giovinezza si sanno provare.
Il suo suicidio lo ha proiettato in una dimensione eroica, un eroismo dimesso e senza retorica, ma sempre ambiguamente affascinante. Nello stesso tempo Cesare Pavese è un formidabile lettore di Whitman e un traduttore straordinario di Melville, è l’anima della casa editrice Einaudi, è l’impresario di cultura cui si devono una nuova traduzione dell’Iliade e la conoscenza in Italia di importantissime opere etnologiche e antropologiche. È il cantore della vita atemporale, magica delle colline della sua Langa, ed è l’intellettuale che a Torino entra in contatto con i circoli più raffinati che maturano in quella città ed esprimono figure come Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Giulio Carlo Argan, Massimo Mila. È il neorealista che pubblica Il Compagno e il mitologo che, nello stesso anno (1947), fa uscire Dialoghi con Leucò. È il comunista che si proclama tale nel dopoguerra, ma è anche, come emerge dai Taccuini del 1942-1943, espunti dal Mestiere di vivere e ritrovati soltanto molto più tardi, l’individualista che mostra una qualche comprensione persino per il fascismo e una ammirazione cupa per la Germania.
Cesare Pavese è tutto questo. E io credo che la cultura italiana debba un ringraziamento a Lorenzo Mondo per aver scritto Quell’antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese (Rizzoli, pagg. 239, euro 17,50) che, in un momento di sbandamento, di abbassamento, di perdita del senso stesso di che cosa è la letteratura, ci permette di tornare a mettere a fuoco, nella sua grandezza e nella sua contraddittorietà, una figura come quella dell’autore di Lavorare stanca. Di uno che per la letteratura visse e morì. La breve vita di Pavese, che in sé si presterebbe a enfasi e sentimentalismi, è raccontata con una sobrietà esemplare, fondendo oggettività e partecipazione etica. Vediamo Santo Stefano Belbo, la Torino intellettuale d’allora, seguiamo le vicende del confino a Brancaleone, in Calabria, il ritorno all’Einaudi, ci colpiscono le immagini appena tratteggiate delle donne, Tina, Fernanda, Bianca, Constance, Pierina, per le quali Pavese visse le sue infelici, contrastate, umilianti e inconcludenti passioni amorose.
Ma Mondo, che è critico letterario prima che biografo o storico, chiarisce al lettore soprattutto il rapporto tra le opere di Pavese e le sue vicende esistenziali, e affronta il tema della sua idea di poesia e di letteratura e delle sue controverse prese di posizione in politica. In particolare, Mondo sottolinea il filo rosso che percorre tutto il lavoro di Pavese, di poeta, di romanziere, di intellettuale, la sua riflessione sul mito. In effetti, la tragedia umana e culturale dello scrittore piemontese è incentrata proprio nel contrasto fra la sua passione per la riscoperta vichiana del mito, che è alle origini dell’umanità come l’infanzia è all’origine dell’individuo e rappresenta una riserva inesauribile dello spirito, e la sua appartenenza a un tempo che aveva cominciato a stabilire una falsa e infausta equazione tra mito e nazifascismo.
Poco prima del suicidio, Pavese apre la rivista Cultura e realtà, nata nell’ambito del Partito Comunista, proprio con un articolo intitolato «Il mito». Era già un suicidio intellettuale. Arriva prontamente la confutazione di Fortini. E presto di mito si sarebbe parlato soltanto nel senso decaduto di falso idolo per la civiltà di massa, e una dittatura antimitica, nemica di ogni aspetto del sacro e di ogni energia dello spirito, avrebbe governato manu militari la cultura italiana. Oggi occorrerebbe rileggere i versi di Lavorare stanca proprio in una chiave mitico-simbolica, respingendone l’interpretazione neorealistica che ebbe molto corso e avalli autorevolissimi come quello del Sapegno. L’inquietudine di Pavese, che a tratti ha toni religiosi, trovò nel comunismo, come ci spiega Mondo, una «chiesa etico-politica» cui approdare. E non certo una soluzione filosofica e ideologica alle proprie esigenze. Che, come si legge nei Taccuini segreti del ’42-43, prevedevano concetti come quelli di anima, magia, inconscio, mito. Il suo suicidio è anche la risposta desolata ed eroica al profilarsi di un mondo in cui quei concetti per decenni sarebbero stati criminalizzati.

Anche Pasolini censurò interiormente le sue esigenze di mito, lasciandole poi emergere nel suo cinema. E Calvino virò nel fiabesco, per poi riscoprire alla fine il mito nelle Lezioni americane. Tanti non lo sanno, o non lo vogliono sapere: ma la poesia ha sempre a che fare col mito, è sempre cosa da «antichi ragazzi».

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