Una Cgil da anni Settanta in piazza per non sparire

Altro che manovra o contratto: la pasionaria Camusso è in crisi d’identità e sciopera per un mondo che non c’è più. Dove a dettare legge era il sindacato

Una Cgil da anni Settanta 
in piazza per non sparire

Sciopero, sciopero, e ancora sciopero. Come se questa fosse la risposta a tutte le paure. Susanna Camusso non deve avere un gran senso dell’umorismo, altrimenti avrebbe scelto come data l’8 settembre. Era il segno di un’Italia allo sbando, confusa, sotto assedio, smobilitata. La signora della Cgil invece scenderà in piazza in un martedì qualunque di fine estate, cercando di spiegare che questa è una cosa seria. La domanda è perché uno sciopero generale adesso, con le borse europee in apnea, la crisi sul collo, la Banca centrale europea che predica, i conti pubblici in rosso fisso, senza speranze e il futuro in ritardo da anni? Serve a qualcosa occupare cento piazze? È utile? Ha un senso? Calmerà quelle divinità indefinite che ci ostiniamo a chiamare mercati? Oppure è un modo maldestro per copiare la Grecia? Sciopero scaccia speculatori o sciopero scaccia Berlusconi?

Camusso dice che questo sciopero è contro la manovra e per difendere il contratto nazionale di lavoro. Niente accordi aziendali. Niente patti in deroga. Nessuna flessibilità sull’articolo 18. La Cgil è libera di scioperare per qualsiasi motivo: contro il governo, contro Berlusconi, contro l’ombra di Marchionne, perfino contro Cisl e Uil. Solo che questo sciopero, qui, adesso, forse serve esclusivamente alla Cgil. È l’illusione di ritrovare se stessa.

A vederlo da vicino sembra solo lo scioperò dell’identità smarrita. La Camusso, e il suo sindacato, sognano un mondo che non c’è più. È lì che vogliono tornare, a una storia in cui il sindacato è centrale, detta le regole e concerta, pesa più di un partito politico, dove la flessibilità è un’anomalia, dove il lavoro non subisce la concorrenza della Cina, dove il mercato è racchiuso dentro frontiere solide e protette, dove lo Stato è generoso e compra le imprese fallite. Era il mondo dell’Iri e del posto fisso, degli scioperi politici e dei carrozzoni pubblici in perdita, con l’orgoglio di pagare gente per scavare buche e poi riempirle. Era il sindacato padrone e caporale, che gestiva assunzioni e formazione, poteri e ricatti. Quel sindacato senza fratture, ricorda Camusso, non conosceva crisi di identità. Era lo specchio del suo tempo. Ma ormai sono più di vent’anni che la Cgil vive con un altro fuso orario. E questo è il suo dilemma: la fatica disperata di tornare al tempo perduto. In questo viaggio si porta dietro anche un Pd riluttante, che in privato maledice le scelte della Camusso e in pubblico si accoda, troppo debole e incerto per rifiutare.

Questo sciopero, messo in scena in un’Italia in crisi, diventa quindi l’occasione per tornare a segnare il terreno, a definire ancora una volta la propria identità: noi siamo sempre noi, gli altri (Cisl e Uil) si sono snaturati. È l’ultima orgogliosa manifestazione di un sentimento reazionario. È il sogno di tornare, ancora una volta, a cento piazze in bianco e nero, come se l’Italia fosse un remake degli anni Settanta del Novecento, come se fosse possibile ricostruire un futuro alternativo, senza riflussi, senza muri caduti, senza globalizzazione, senza Berlusconi, senza tempo. Come se la Cgil non fosse il sindacato di gente incanutita, con troppi anni in pensione, con i figli in cerca di un lavoro sicuro e la flessibilità sussurrata come una bestemmia. Questo è il modo migliore per riconoscersi. Non importa se questa Italia ferma e in piazza è solo una finzione. Magari anche questo serve a esorcizzare le paure. Con un sentimento come corollario: da questo buio non si esce guardando avanti, ma rifugiandosi in un passato da idealizzare. Pensateci. La Cgil non dice mai cosa fare per uscire dalla crisi, si ostina a chiudere tutte le porte. Questa no, questa neppure, quest’altra siamo matti, da qui escono i mostri, lì c’è l’apocalisse. Non si toccano le pensioni, non si cambia il welfare, non si sfiora il mercato del lavoro, non si cambia la scuola, non si taglia lo Stato. Niente.

Molti di quelli che oggi sono in piazza sono lì per cercare una via d’uscita. Tanti giovani, molti disillusi, persi, arrabbiati. Chiedono una risposta. Ma la Cgil non ha altro da dare che il solito, vecchio, no. Il futuro, ragazzi, è già passato. E vi sta prendendo alle spalle.

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