da Washington
Contrordine compagni: abbiamo perso. È il segnale che Hugo Chavez è stato costretto a mandare agli attivisti del suo partito e, naturalmente, agli altri suoi connazionali al termine di una notte referendaria lunga e piena di angosce. «Una tortura - ha detto il presidente - cui non potevo continuare a sottoporre il Paese per altre ore o per altri giorni. La commissione elettorale mi ha detto che la tendenza è irreversibile e dunque io la rispetto. Il risultato è una prova che la democrazia venezuelana sta maturando. È un altro passo avanti. Accetto la sconfitta, anche se naturalmente avrei preferito vincere; ma non avrei voluto neanche una vittoria di Pirro come quella dei miei oppositori».
Un sospiro, un semplice richiamo storico o l’enunciazione di un desiderio di rivincita? Ciò non sarebbe impossibile, come confermano alcuni ex collaboratori di Chavez oggi diventati suoi critici, a cominciare dall’ex ministro della Difesa, generale Raul Baduel: cambiamenti potranno essere apportati alla Costituzione anche per via parlamentare, dato che alla Camera i sostenitori di Chavez detengono una schiacciante maggioranza. L’aspirante dittatore, d’altra parte, potrebbe essersi convinto dopo questo scacco che il continuo rilancio di demagogia rivoluzionaria non funziona sempre come egli forse sperava, che la gente se ne sta stancando, anche molti fra i suoi sostenitori. I dati numerici più rimarchevoli della consultazione non sono infatti il margine di successo dei «no», che è estremamente ridotto: il 50,7 contro il 49,3 per cento, pari a 100mila voti scarsi. Sono invece l’impennata dell’astensionismo (44 venezuelani su 100 non sono andati a votare) e soprattutto una cifra «cruda»: dall’ultima consultazione Chavez ha perduto oltre 3 milioni di voti. Perché? Non convince molti a Caracas la spiegazione avanzata all’estero durante la campagna elettorale e consolidata dal risultato: che l’opposizione a Chavez stia ritrovando una compattezza, un ruolo, una «visione» e una dignità che aveva perduto soprattutto dopo il suo incosciente flirt con i golpisti dilettanti di cinque anni fa.
È vero che nel 2007 il «fronte dei no» si è ampliato, ma è altrettanto vero che esso non ha dato molti segni di aggregarsi in modo da costituire una vera alternativa. La «sfiducia» votata a Chavez ha più probabilmente motivi economici. Quelli che sono rimasti a casa sono stati in gran parte gli elettori su cui l’aspirante dittatore contava, i più poveri, beneficati in qualche modo dal suo regime, per lo meno a breve termine e che dovrebbero costituire il «carburante» per le fasi successive dalla «revolucion bolivariana». Se Chavez ha una strategia discernibile essa consiste in molte promesse per ogni elargizione, alla ricerca di una popolarità epidermica e continuamente rinnovata, di un appoggio popolare per i suoi slogan più che per i suoi atti, di una mobilitazione permanente delle masse e, nel contesto dell’America Latina, in una espansione dell’influenza personale. Ma queste ambizioni non coincidono con i desideri e i bisogni di molti tra i suoi elettori, cui interessano assai meno le continue sparate propagandistiche contro gli Stati Uniti, le esibizioni di solidarietà con tiranni del Terzo mondo, soprattutto se islamici, adesso perfino la lite con l’Europa e la Spagna, culminata in uno scambio di male parole con il suo re.
I venezuelani poveri si fanno i conti in tasche che continuano a trovare semivuote, soprattutto a causa dell’inflazione (che è la più alta dell’intero Sud America e ha toccato adesso la soglia del 20 per cento annuo) e dell’aumento delle tariffe. I profitti del boom petrolifero, pur assai ingenti, filtrano goccia a goccia nelle economie familiari.
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