Al Pacino, un "Padrino" senza neanche la patente

A 84 anni, l'attore si racconta in "Sonny Boy": dall'infanzia nel Bronx all'alcol, dal teatro all'Oscar

Al Pacino, un "Padrino" senza neanche la patente

A cinque anni, Alfredo ha già compreso come recitare non sia affatto un gioco. Ha visto Giorni perduti, un film del '45 di Billy Wilder in cui Ray Milland interpreta (da Oscar) il ruolo di un alcolizzato. E Alfredo, che in seguito tutto il mondo chiamerà Al, davanti ai parenti cerca di riprodurre la scena in cui Milland, sobrio, ribalta la casa per ritrovare la bottiglia che ha nascosto quando era ubriaco. I parenti di Al ridono. Lui no. «Avevo solo cinque anni ma pensavo: perché stanno ridendo? Qui c'è un uomo che sta combattendo per la sua vita».

Di cognome, Al fa Pacino e oggi, a 84 anni, è uno dei mostri sacri del cinema. Questo episodio lo racconta nella sua autobiografia, Sonny Boy, che esce oggi in contemporanea mondiale e in Italia per La nave di Teseo (pagg. 336, euro 22): «Sonny Boy» è il soprannome che gli aveva dato sua madre, da una canzone di Al Jolson, «There's no way of showing/ What you mean to me, Sonny Boy», una dichiarazione d'amore senza confini. Alfredo James Pacino nasce ad Harlem, New York, il 25 aprile 1940 da due genitori giovanissimi; il padre abbandona la famiglia quasi subito e Al trascorre alcuni mesi con i nonni paterni, prima di trasferirsi dai nonni materni nel South Bronx. Terra di immigrati, ragazzini che giocano per la strada a farsi inseguire dai poliziotti, a rubacchiare, a scappare sui tetti, grandi casermoni con appartamenti minuscoli in cui si vive ammassati, con un affitto bloccato a 38,80 dollari al mese e il padre che ne versa soltanto cinque, perché così ha stabilito il giudice. Come tutti, anche Al fa parte di una banda di amici e i suoi si chiamano Cliffy, Bruce e Petey. «Col senno di poi, penso che dalla mia famiglia ricevessi più amore di loro tre. Credo che ciò possa avere fatto la differenza. Io ne uscii fuori vivo, loro no». Quell'amore della mamma per il suo «Sonny Boy», certo. E i nonni, fondamentali per un ragazzino che cresce senza il padre e con una madre che soffre di depressione e tenta il suicidio. E poi una insegnante che, dopo averlo visto negli spettacoli scolastici, va a parlare con sua nonna: «Questo ragazzo deve continuare a recitare». Dice oggi Al Pacino: «Fu un gesto molto semplice, ma anche molto raro».

E fra mille difficoltà, in effetti, Al continua a recitare. Prima a scuola, Giallo in famiglia, che per lui è uno sconvolgimento emotivo perché, per la prima volta, il padre e la madre insieme lo portano a festeggiare a una tavola calda, «come il Denny's, quello che si vede all'inizio di Pulp Fiction». Poi alla High School of Performing Arts di Manhattan, dove ha deciso di tentare l'esame dopo essere rimasto folgorato da una rappresentazione teatrale del Gabbiano di Cechov. Lui e l'amico Cliffy sono stati accettati: «La mattina prendevamo la metro nel Bronx e riemergevamo all'angolo tra Broadway Avenue e la 42esima strada». La scuola è sulla 46esima e un giorno, camminando, i due incrociano Paul Newman. È proprio a Broadway che Al conosce il primo successo, con L'indiano vuole il Bronx, in cui all'ultimo momento, e controvoglia, prende il posto dell'amico Martin Sheen: lo spettacolo lo porta in Italia, al festival di Spoleto e gli fa vincere il premio Obie, «il corrispettivo off-Broadway dei Tony Awards». Non che questo gli consenta di staccarsi dall'alcol, suo compagno fedelissimo, o dai lavori saltuari, dal portiere al distributore di giornali, ma è la svolta: «Fu il punto d'arrivo di un percorso che era iniziato quando mia madre aveva cominciato a portarmi al cinema da piccolo. E dopo niente fu più lo stesso. La gente veniva a vedermi»... E spunta anche un manager, Marty Bergman, un altro cresciuto nelle strade del Bronx, che lo fa esordire al Belasco Theater di Broadway con Le tigri portano la cravatta? e a quel punto succede una di quelle cose che sembrano possibili solo nella sceneggiatura di un film hollywoodiano: fra gli spettatori c'è un giovane regista, che lo invita a San Francisco per discutere di un certo progetto. Al non vuole salire sull'aereo (non vuole quasi mai, così come non ama partecipare alle premiazioni) ma l'agente lo costringe: Francis Ford Coppola deve proporgli di interpretare Michael Corleone nel Padrino, dal romanzo di Mario Puzo. «Pensai che stesse delirando». Chiama la nonna, che gli svela il tocco del destino: suo nonno, siciliano, era originario proprio di Corleone...

Per interpretare la parte, Al Pacino deve convincere i produttori, che all'inizio non vogliono nemmeno Marlon Brando. Coppola lo porta dal barbiere per «un autentico taglio di capelli anni Quaranta», e al pover'uomo incaricato del compito viene un infarto. Ma il girato non funziona e lui rischia di essere bocciato: è la scena del ristorante, quella in cui torna dal bagno con la pistola, ammazza i due rivali del padre e poi scappa su un'auto in corsa, a salvargli la parte. E la carriera. L'autobiografia dedica ampio spazio al Padrino, a Marlon Brando (che lo ipnotizza mentre si ingozza di pollo alla cacciatora e poi, con le mani sporche di pomodoro, lo rassicura: «Tranquillo, ragazzo, andrà tutto bene»), a Coppola e a certe scene indimenticabili, come quella del matrimonio in Sicilia, in cui Al confessa di non avere la patente («Perché un ragazzo del South Bronx dovrebbe guidare la macchina? C'è la metro che lo porta dappertutto»). E poi ci sono i suoi grandi lavori: Scarface, un film «troppo ingombrante», che Hollywood non può amare; Lo spaventapasseri con Gene Hackman («eravamo distanti anni luce»); Serpico (quando conosce il vero Serpico gli chiede come mai non abbia preso mazzette, e lui: «Al, se l'avessi fatto, poi come avrei potuto ascoltare la musica di Beethoven?»); Heat con De Niro («un carissimo amico»); Quel pomeriggio di un giorno da cani; Profumo di donna, con l'Oscar, dopo sette nomination; L'avvocato del diavolo e Donnie Brasco...

Restano, a Sonny Boy, il sogno di fare un film tratto da Re Lear (nel ruolo del protagonista) e quello di essere Napoleone, ma solo sul grande schermo. Ne aveva parlato anche con Kubrick, ma poi non se n'è fatto nulla. La fama va, e poi ritorna. «Non sono mai stato famoso come adesso».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica