Vivere in una determinata zona d'Italia rispetto ad un'altra può incidire anche sulla busta paga che, come analizzato dagli esperti, non è la stessa a seconda del luogo in cui si vive e lavora. A dirlo è il centro studi Cgia Mestre, che in una lunga analisi pubblicata in data odierna (qui) spiega come anche nel nostro Paese (il fenomeno è presente anche all'estero) vi siano considerevoli differenze salariali a seconda della località.
Per citare un esempio esaustivo, basti pensare che la retribuzione media lorda annua di un dipendente del settore privato di Milano è di 31.202 euro, mentre a Palermo scende a 16.349 euro (dati 2021). Una distanza non da poco fra le due buste paga, tenendo in considerazione che la retribuzione media italiana, sempre nel 2021, era data a 21.868 euro.
L'eterno divario
Per realizzare questa analisi, il centro studi della Cgia ha potuto avvalersi dei dati raccolti dall'Inps. Dati che, ancora una volta, hanno confermato le differenze, ad oggi ancora presenti, fra Nord e Sud Italia. Ma non solo. Variazioni considerevoli si trovano anche mettendo a confronto le aree urbane con quelle rurali.
A poco sono serviti gli interventi del passato, come l'introduzione del Ccnl (Contratto collettivo nazionale del lavoro). Le differenze restano, soprattutto a causa dell'offerta di lavoro. Grandi imprese, aziende legate alle multinazionali, istituti di credito e associazioni finanziarie, che solitamente riconoscono un trattamento economico migliore ai loro dipendenti, si trovano spesso e volentieri ubicate nel Nord Italia e in zone urbane. Al Sud, al contrario, si è diffuso con più facilità il lavoro irregolare, che certo non garantisce stipendi generosi.
La differenza geografica si avverte eccome, anche se la Cgia precisa che, facendo una comparazione fra stessi mestieri, svolti in zone del Paese diverse, il divario si accorcia, segno che la contrattazione centralizzata ha portato i suoi effetti.
La contrattazione decentrata
Un altro argomento trattato nell'anilisi della Cgia di Mestre è quello della contrattazione decentrata, pratica molto diffusa in Germania. La contrattazione decentrata è un tipo di contratto collettivo che permetterebbe agli stipendi di variare all'andamento dell'inflazione. A detta degli esperti del centro studi, sarebbe una soluzione migliore del tanto dibattuto salario minimo. "Come ha avuto modo di segnalare anche il Cnel", spiegano gli esperti nel loro elaborato, "il problema dei lavoratori poveri non parrebbe riconducibile ai minimi tabellari troppo bassi, ma al fatto che durante l'anno queste persone lavorano un numero di giornate molto contenuto. Pertanto, più che a istituire un minimo salariale per legge andrebbe contrastato l'abuso di alcuni contratti a tempo ridotto". E, ancora, "per innalzare gli stipendi dei lavoratori dipendenti, in particolar modo di quelli con qualifiche professionali minori, bisognerebbe continuare nel taglio dell'Irpef e diffondere maggiormente la contrattazione decentrata".
I contratti di lavoro
Lo studio proposto dalla Cgia pone poi l'attenzione sui contratti di lavoro di secondo livello. Secondo l'analisi ad essere coinvolti sono solo 3,3 milioni di dipendenti, che costituiscono il 20% del totale. "Entro il 15 giugno scorso erano presenti presso il Ministero del Lavoro 10.568 contratti attivi di secondo livello, di cui 9.532 di natura aziendale e 1.036 territoriali", si legge nel documento. "Dei 10.568 contratti attivi, il 72% è stato sottoscritto al Nord, il 18% al Centro e il 10% al Sud".
Non solo.
Dallo studio è inoltre emerso che un dipendente privato su due ha il Ccnl scaduto, e ciò non gioca a favore della ripresa. Secondo la Cgia sarebbe necessario rispettare le scadenze entro cui rinnovare i contratti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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