Cléo de Mérode, la divina più fotografata del primo Novecento

Non fu solo la prima icona moderna, come ora racconta la biografia splendidamente illustrata di Christian Corvisier (Cléo de Mérode et la photographie, Edition du Patrimoine), ma mise nella costruzione del proprio personaggio e nello sfruttamento della propria immagine un’intelligenza e una sensibilità impareggiabili, tali da incarnare un’epoca e cristallizzarsi in un ideale femminile

Cléo de Mérode, la divina più fotografata del primo Novecento

Al grande Cecil Beaton, che la fotografò quando era quasi novantenne, Cléo de Mérode disse nel salutarlo: “Ricordatevi, sono molto civetta. Mi promettete di distruggere le foto venute male?“ Nell’appartamento parigino di rue de Téhéran, quella che era stata la donna più fotografata del primo Novecento si era messa davanti all’obbiettivo come se il tempo non fosse mai passato: di profilo, occhi bassi, labbra chiuse, le dita strette a sostenere il mento. Il viso conservava le proporzioni della giovinezza, tutto nei suoi movimenti rimandava a un incanto adolescenziale. Scrisse Beaton che non avrebbe scambiato quell’ultima immagine “di una romantica stella“ con “nessuna delle nuove star del firmamento contemporaneo“ e la dichiarazione, fatta in un’epoca, gli anni Sessanta, in cui il divismo cinematografico era ai suoi massimi e le star si chiamavano Marilyn Monroe, Brigitte Bardot, Audrey Hepburn, ha un suo significato. Perché Cléo de Mérode non fu solo la prima icona moderna, come ora racconta la bella biografia splendidamente illustrata di Christian Corvisier (Cléo de Mérode et la photographie, Edition du Patrimoine), ma mise nella costruzione del proprio personaggio e nello sfruttamento della propria immagine un’intelligenza e una sensibilità impareggiabili, tali da incarnare un’epoca e cristallizzarsi in un ideale femminile. Cléo era il diminutivo di Cléopatre Diane, figlia della baronessa austriaca Vincentia de Mérode e di un nobile viennese rimasto sconosciuto, figlia naturale, quindi, nata a Parigi dove la madre si era recata a tempo debito per dissimulare una maternità extra-coniugale e dove ambedue sarebbero per sempre rimaste. Imparentata con il ramo belga dei Mérode, Vincentia, detta Zenzy, fece della propria figlia un arma di riscatto sociale: la sua bellezza verginale come frutto di un amore puro e non di un volgare adulterio, il suo successo nella Parigi che contava come risposta a chi in patria le aveva chiuso le porte, l’ammirazione appassionata di un monarca, Leopoldo II del Belgio, come riaffermazione di una nobiltà che niente e nessuno poteva cancellare... Le prime foto di Cléo la ritraggono a tre anni e sono scattate nello studio di Félix Nadar, il re dell’obbiettivo, il fotografo degli scrittori, l’inventore della foto d’arte. Zenzy de Mérode, insomma, sa come muoversi. A sette anni, Cléo è già uno dei “topolini“ dell’Opéra, le danzatrici in erba intorno alle quali l’ambiguità regna sovrana: l’età le vuole innocenti, l’ammirazione dei maturi signori che in quanto abbonati assistono anche alle prove, le incontrano nei foyer, non sono mai avari di doni, nasconde dietro un’allure paterna e paternalistica, una più sostanziale passione pedofila, primo passo verso una successiva carriera di cortigiana, cocotte, mantenuta. La straordinaria fotogenia della piccola Cléo e il combinato disposto di un fisico in cui la femminilità dei tratti esalta il contorno ancora acerbo delle forme, fanno di lei una sorta di unicum. “Io ero al singolare, e le altre al plurale“ scriverà nelle sue memorie. Potrebbe essere l’eroina di Alice nel Paese delle meraviglie immaginata da Lewis Carroll, ma anche un paggio medievale dipinto da Botticelli, scolpito da Bronzino, il Puk della Tempesta di Shakespeare o un aristocratico di corte in Romeo e Giulietta... Non c’è balletto in cui non venga notata: non per come danza sulle punte, semplicemente per quanto è bella. A vent’anni, Clèo è una certezza della danza, ma non possiede il fuoco sacro dell’arte e sa che non sarà mai una Sarah Bernardt delle scene. L’incontro con lo scultore Alexandre Falguiére avviene proprio allora e trasforma una dotata, ma comunque modesta ballerina in un ideale femminile. Al Salon du Printemps Falguiére espone la sua Danseuse: nuda, verginale, il volto inconfondibile di Cléo a illuminare il bianco marmo del seno, del ventre, delle gambe...Divina o impura? Scoppia lo scandalo, lei nega di aver posato, l’artista non la smentisce, ci si divide fra chi continua a ritenerla divina, chi la vuole impura, chi ritiene che la ragione del suo fascino sia proprio questa, una divina impurità, un’impura divinità. ..Pochi mesi ancora e Cléo è di nuovo su tutte le bocche e su tutti i giornali. Leopoldo II del Belgio, anziano e grasso, barbuto e imponente, la riempie di fiori e di regali, non perde una sua esibizione al teatro dell’Opéra, la segue nelle tournées europee, addirittura oltreoceano. I giornali satirici inventato “Cléopolde“ e disegnano lei ora come una bambolina ostaggio di un vecchio satiro, ora come una nuda bellezza che lo manovra a suo piacimento, altera e distante. Da questo momento in poi, Cléo de Mérode assurge nell’empireo della bellezza casta e inaccessibile, oggetto di contemplazione, come si fa per un’opera d’arte. Non c’è drammaticità, in lei, né l’immoralità delle grandi mantenute dell’epoca, ma il semplice tributo alla bellezza in quanto tale. Cléo ne è consapevole e imposta la sua vita nella difesa di essere nient’altro che l’icona di sé stessa. Veste da Doucet, il più grande couturier del suo tempo, e Doucet disegna per lei abiti che ne mettono in risalto il vitino da vespa e le lunghe gambe, ma mai indugiano in spacchi e decollété pruriginosi. Trasforma i fotografi in editori. La sua immagine diventa cartolina, oggetto pubblicitario, calendario, feticcio, una moda e una mania, uno sfruttamento commerciale senza pari, centinaia di migliaia di riproduzioni per tutta Europa e le Americhe... Sarà così fino alla vigilia della Grande guerra, quando ormai ha quarant’anni ma è ancora come senza tempo, cristallizzata in un’immagine di eterna giovinezza alla DoRian Gray dove però l’assenza di peccato impedisce ogni corruzione fisica e psicologica. Giovanni_Boldini, il ritrattista per eccellenza della bellezza femminile, la immortala in un quadro, Luis de Perinat, scultore e suo amante discreto e più o meno segreto, sistema la sua statua al Père-Lachaise come ornamento della tomba di Vincentia de Mérode, la madre.

Avviluppata in un candido manto, i celebri, lunghi capelli divisi in due bande laterali, il corpo è rivelato più che mascherato dal velo marmoreo che lo avvolge, un inno alla sensuale morbidezza del soggetto. Ci vorranno ancora sessant’anni prima che Cléo vada anche lei a riposare per sempre.

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