Colpevole di antipatia

Sedici anni, un compromesso che non si chiarisce nemmeno con l’espediente delle attenuanti generiche, quasi un tentativo di conciliare giustizia e ingiustizia e che non scioglie il nodo di questa tragedia, che, prima di essere giudiziaria, è umana e civile. Sedici anni, una sentenza apparentemente salomonica che lascia, col suo metà e metà rispetto ai trent’anni del primo grado, l’amaro in bocca, il turbamento nel cuore, il dubbio nella mente.
Io non sono innocentista, ma l’aver ridotto la pena, da parte dei giudici d’appello, non legittima fino in fondo la condanna davanti a una comunità nazionale smarrita e divisa. Le sentenze dovrebbero generare accettazione e rispetto, ma in questo caso troppi elementi hanno un peso nel rendere il verdetto ostico e indigeribile a molti, espressione di una logica indiziaria che ha indotto a privilegiare, rispetto alle prove che non ci sono, ombre di quasi fatti, illazioni su un movente improbabile e indimostrato, ricostruzioni discutibili sull’origine delle tracce riscontrate sulla scena del crimine.
Ammettiamolo, Anna Maria Franzoni avrebbe avuto diritto a quel «ragionevole dubbio» che non ha toccato i suoi giudici, o che forse li ha sfiorati inducendoli a tagliare la pena con la spada di una compassione che non avrebbe alcun senso se la mamma di Cogne avesse veramente ucciso il suo bambino.
Non mi ritengo innocentista ma il dubbio terribile rimane. Non c’è la prova che il piccolo Samuele sia stato ucciso da un estraneo, da un assassino che non faceva parte del nucleo familiare e che covava chissà quali orrori di odio e di vendetta. No, questa prova non c’è, ma non c’è nemmeno la dimostrazione della colpevolezza della madre. Non c’è l’arma, non ci sono i tempi, non c’è una plausibile spiegazione di quello che il procuratore generale ha definito – orribile termine – figlicidio. È paradossale, ma Anna Maria Franzoni è stata condannata – a meno che le motivazioni della sentenza non colmino a sorpresa vuoti incolmabili – per questa mancanza di prove. Sembra che sia stata condannata «per esclusione»: non si trovano tracce dell’assassino, ergo il colpevole è il soggetto più vicino alla vittima e che aveva, quindi, opportunità e possibilità di colpire. Con che cosa? Nessuno ce lo dirà mai.
Tracce, prove, elementi certi per ricostruire movimenti e azioni. Zero assoluto. Non bisogna dimenticare che l’indagine sull’uccisione del piccolo Samuele è stata caratterizzata nelle prime ore - quelle cruciali, decisive – da sciatteria e buchi neri. La scena del crimine non è stata isolata col dovuto rigore, nessuno ha più potuto marcare segni, impronte, elementi indiscutibili di prova. L’indagine vera è cominciata tardi e non è più possibile raccapezzarsi ragionevolmente fra perizie e controperizie, accuse incrociate fra chi ha condotto l’azione penale e i difensori.
C’è di più. La pochezza degli elementi certi disponibili per la ricostruzione del delitto è stata sommersa e oscurata dalla sovraesposizione mediatica. Il delitto ha turbato il Paese e proprio nei primi giorni dell’inchiesta l’iperattivismo dei mezzi d’informazione si è imposto sulla nebulosità dei dati certi disponibili per l’indagine. Anche per questo Anna Maria Franzoni paga un prezzo altissimo: non è stata processata e giudicata soltanto sulla base di quel che ha fatto e che sarebbe stato possibile documentare, ma per le lacrime che ha versato, per le interpretazioni che sono state date delle sue interviste televisive, per l’antipatia suscitata dagli eccessi protettivi del suo clan familiare.


Non sono innocentista, ma la sentenza della Corte d’appello non chiude il caso e non elimina l’angoscia che le fasi di questo processo hanno suscitato in tanti italiani. Il caso di Cogne è una ferita che ci tormenterà ancora.
Salvatore Scarpino

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