È stata una buona idea aprire l'80ª edizione della mostra del cinema di Venezia, nata nel 1932, anno X dell'era fascista, con Comandante. Un film storico, kolossal (15 milioni di euro di budget), di grande impatto visivo (le scene d'azione sono imponenti, la ricostruzione del sottomarino incredibile), impegnato e inevitabilmente politico, cosa che a un festival male non fa (si parla dell'eroismo di un uomo che di fronte a dei naufraghi sceglie di salvarli, non di respingerli) e soprattutto italianissimo: per produzione, regia (Edoardo De Angelis), cast (il protagonista è Pierfrancesco Favino, attore impeccabile per tutti i ruoli e tutte le stagioni, perfino quando recita con l'accento venexian) e storia. Vera. Ossia quella di Salvatore Todaro, pluridecorato comandante della X Mas che nell'ottobre del 1940, al comando del sommergibile Cappellini, con la missione dettata dai vertici militari fascisti e tedeschi di attuare un agguato alla flotta nemica nell'Atlantico, trasse in salvo 26 naufraghi belgi dopo aver affondato il loro mercantile. Mettendo a rischio la propria vita e quella del suo equipaggio infrange il regolamento militare ma obbedisce alle leggi del mare.
Il film al Lido è piaciuto. In Sala Grande, al termine della proiezione di apertura, ha strappato un lungo applauso. E naturalmente - nonostante nella prima inquadratura, in esergo, riporti la frase di un marinaio russo rivolta a un comandante ucraino: «Siamo tutti a un braccio di distanza da Dio» - da tanti è stato letto in chiave bassamente antisovranista. «Mi auguro che chiunque guardi il film convenga sul fatto che esistono leggi immutabili come quelle del mare e non devono essere infrante, mai», si è rivolto Edoardo De Angelis, a distanza, al vicepremier Matteo Salvini, arrivato a vedere il film con la compagna Francesca Verdini, con tanto di affettuoso red carpet. Salvini ha risposto via Twitter a De Angelis: «Assolutamente d'accordo col regista, non a parole ma coi fatti. Durante il mio lavoro al ministero dell'Interno, i morti e i dispersi in mare sono stati meno che negli anni precedenti e successivi». Il tutto curiosamente in un momento, come l'attuale, in cui mai è stato così alto il numero di migranti accolti dallo Stato italiano (ma poi, ci chiediamo: c'è davvero qualcuno - Salvini, Meloni? chi? - che desidererebbe vedere un uomo annegare?).
Del resto l'idea del film nasce nel 2018 quando il regista e lo scrittore Sandro Veronesi iniziano a lavorare alla sceneggiatura «per riparare il disonore di cui si era macchiata l'Italia, quello di disattendere le regole più elementari dell'aiuto a chi ha bisogno: c'era un clima pesante e sprezzante - ha spiegato il romanziere due volte premio Strega - e quella di Todaro era una storia perfetta, una vicenda che incarna una civiltà che da duemila anni, anche in guerra, considera sacro il soccorso e sa tendere il braccio».
Ne è nato così un film forte, appassionato, patriottico (molto patriottico, battuta madre: «Noi non l'avremmo fatto: perché ci avete salvato?». «Perché siamo italiani»). E ambiguo. Salvatore Todaro, che poi morirà nel 1942 mitragliato da uno Spitfire inglese, medaglia d'oro al valor militare, è un militare, fedelissimo alla Monarchia, un esaltato idolatrato dai suoi uomini, inflessibile e umano («Affondiamo col ferro il nemico senza pietà ma l'uomo lo salviamo. Così si è sempre fatto in mare e sempre si farà e coloro che non lo faranno saranno maledetti»), un padre-padrone che cura e punisce, un cattolico e spiritista, veggente e cultore delle discipline orientali, filosofo e studioso (dopo la morte di un suo marinaio cita parole che l'Imperatore del Giappone rivolse al suo popolo all'inizio del conflitto con la Russia del 1904: «Che ognuno faccia quel che deve. Che la vita continui normalmente»), ma mai compromesso col regime, e chissà se davvero era così. «Non sono un fascista, sono un uomo di mare», grida Todaro-Favino. E il regista De Angelis aggiunge: «Non me ne fotte niente se era o no fascista».
E così ecco Comandante: film emozionante, retorico il giusto (la frase «Un uomo non è mai così forte come quando tende il braccio» emoziona, la lezione sull'italianità come melting pot etno-dialettale-gastronomico un po' meno), ruffiano, romantico (le lettere dell'ufficiale-eroe alla moglie Rina: e alla proiezione assistono anche la figlia, che Salvatore Todaro non riuscì mai a vedere, e la nipote, che qui ascoltano una voce che non hanno mai sentito), feroce ma lucidato da una sorta di pacifismo-melò, dove si gioca a freccette con la foto di Churchill e il Duce non esiste (l'unica citazione virile è «Il fascismo è dolore») e che addirittura
riesce a farci diventare simpatici i belgi (!) quando fanno scoprire al cuoco napoletano di bordo la ricetta delle patate fritte. E, però, la cena, magrissima, finisce a canzonette e mandolino. Il film italiano perfetto.
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