Il complesso dell’imperatore

«Se il popolo romano avesse continuato a considerarmi il maggiore artista vivente... ». «Sarà bene che vi abituate tutti! Io sono un poeta!». «Quello che voglio è l’occasione per confrontarmi con i più famosi artisti di Roma». «Dentro di me volteggiavano musici altezzosi, sussurri impercettibili di spettacoli celebri, autori sublimi quali Virgilio, Orazio, Ovidio». «Quello che desideravo con ogni fibra dell’essere era un nuovo inizio... e cominciare una nuova vita come poeta». «L’unica strada che intendo percorrere è quella dell’arte». «Ho l’impressione che la mia creatività sia spacciata. Sono stanco di continuare a uccidere il poeta racchiuso nel mio cuore. Sì, sono stanco». «In merito ai concorsi poetici e teatrali, ammetto che sia un’idea mia, ma la ragione per cui mi è venuta in mente è che mi piace partecipare a concorsi del genere, ma ancora di più mi piace vincere. Due volte ho preso il primo premio».
Qualcuno potrebbe pensare che sia stato Walter Veltroni a pronunciare queste frasi, in qualche sintonia con l’angoscia del sindaco romano di essere considerato un artista e non solo un misero politico. Ma non è così. Né sono di Massimo D’Alema considerazioni come questa: «Il tuo ideale artistico ti sta facendo sprofondare in un’ossessione».
Si tratta di parole messe in bocca a Nerone nel libro Io, il divo Nerone (E/O, pagg. 433, euro 17,50) da Stèfanos Dàndolos, greco, 45enne, già giornalista, con più di un romanzo all’attivo. Mentre le considerazioni critiche riportate sono attribuite dallo stesso autore a Seneca. Dàndolos si è scelto come fonti di ispirazione le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar e il Giuliano di Gore Vidal: obiettivo ambizioso. Però mancato. A parte qualche invenzione, il monologo autobiografico dell’imperatore non ha né la qualità letteraria né l’ironia dei modelli scelti. È un’opera che ha un po’ della scorrevolezza che noi giornalisti riusciamo a mettere nel raccontare ma anche molta della superficialità della scrittura che si consuma in un giorno.
Detto questo, il dramma del politico (anche del più potente dei politici: l’imperatore) che si considera dotato di un’anima artistica e la vede spenta dal ruolo di chi deve frenarsi, a causa della propria immagine pubblica, ha elementi di verità e invita - paradossalmente e con malizia - a confronti con il nuovo re di Roma, Veltroni, anche lui irrefrenabilmente incalzato dalla sua vena di romanziere. Va poi osservato, al di fuori dall’approccio un po’ scherzoso scelto per questo articolo, come la ripresa che la capitale sta dimostrando in questi anni s’incroci con una nuova attenzione per l’impero fondato sui sette colli. Proseguono le opere che ricordano i valori civilizzatori di Roma (senza peraltro nasconderne le contraddizioni). Tra i fenomeni su cui cresce l’attenzione c’è anche la centralità che il sistema degli intrattenimenti aveva nel consolidare il potere imperiale. Panem et circenses, diceva Giovenale.
Interessanti in questo senso le iniziative prese dalla casa editrice Laterza che ha pubblicato nel 2006 ben due opere dedicate al «sistema intrattenimenti» dei romani antichi. Una, Il Colosseo. La storia e il mito, a cura di due storici inglesi, Keith Hopkins e Mary Beard (pagg. 246, euro 15), l’altra (Il mondo di Ben Hur, pagg. 240, euro 18) a cura di un professore universitario olandese impegnato nella divulgazione, Fik Meijer, che aveva già pubblicato da Laterza nel 2004 il saggio Un giorno al Colosseo.
Nessuno degli autori citati nasconde come una parte della motivazione a scrivere questi libri sia stata offerta dal successo del film Il gladiatore di Ridley Scott, con Russell Crowe. Ma anche quel film faceva parte della ripresa d’interesse per Roma antica, e le traduzioni italiane delle due opere rispondono anche a una ritrovata centralità della capitale: fatto avvenuto proprio grazie anche a una strategia di feste, festival, divertimenti che inevitabilmente riportano alle strategie imperiali.
I due libri Laterza non sono eccezionali: molto attenti alle fonti, sensibili ai problemi etici connessi al lato particolarmente violento (scontri fatali tra gladiatori, esecuzioni feroci di condannati a morte, stragi di animali di tutte le specie), non spiegano bene la strategia imperiale dei giochi. In parte i due libri hanno anche una funzione da guida turistica e ricostruiscono bene i resti del Colosseo e quelli ancora più evanescenti del Circo Massimo, in modo che possano essere visitati con la massima consapevolezza possibile da chi viene a Roma. E in questo senso gli autori preferiscono dedicarsi a una descrizione molto particolareggiata dei luoghi più che delle «logiche» di queste due grandi istituzioni culturali dell’antichità romana (il luogo di spettacoli più prestigioso del mondo, il Colosseo, e un ippodromo, il Circo Massimo, a lungo impareggiabile, almeno fino al decollo di quello di Costantinopoli).
Comunque anche da questi testi un po’ reticenti emerge con chiarezza l’attenzione generale per «l’impero» e quella particolare per le nuove strategie di divertimento della capitale.

Strategie che per quanto si possano criticare, non hanno un’oncia della crudeltà antica (semmai abbonda il buonismo veltroniano). E si può anche escludere che il sindaco in carica, per ispirarsi nella fattura del suo prossimo romanzetto, si possa mettere a bruciare l’Urbe.

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