Il contrordine compagni di Dario

Il segretario pro-tempore si rimangia la parola e dà una stoccata a D’Alema: "Non lascio il partito a chi c’era molto prima di me"

Dario Franceschini si ricandida. Il segretario che ha perso tutto quello che si poteva perdere, tranne tre o quattro roccheforti rosse, dichiara di essere pronto a sfidare Pierluigi Bersani. L’annuncio è venuto dal suo sito, che dopo quattro ore aveva registrato solo 77 contatti, e da quello di Repubblica, il vero sponsor dell’ex vice di Veltroni. Il discorso di autoinvestitura molto anti dalemiano: «Non posso riconsegnare il partito a quelli che c’erano prima di me, molto prima di me». Fra gli ex Ds la frase ha creato irritazione e ironia e qualcuno ha ricordato che prima di Franceschini «c’era solo Mariano Rumor».
La scelta era attesa dopo il tam tam degli ultimi tempi che davano il segretario indeciso sulla candidatura. Quando fu eletto il 21 febbraio di quest’anno esordì con una dichiarazione impegnativa: «Interpreto questo ruolo di segretario come un servizio al partito. Non sono qui per preparare il mio futuro personale. Il mio lavoro terminerà a ottobre con le primarie». Questo solenne impegno è stato ripetuto molte volte. Enfaticamente il 5 marzo: «Il mio mandato è a termine e di garanzia. Ho un compito che se riuscissi a portare a termine sarebbe importante. Arrivato lì non ho intenzione di ricandidarmi. Perché sarebbe innaturale». Il 22 maggio la stessa frase viene ripetuta a Repubblica.tv, l’house organ del nuovo segretario del Pd. Il 28 maggio all’Espresso assicura che non si ricandiderà «ma non andrò in Africa», frase che irritò molto Walter Veltroni. Il 1° giugno fu ancora più deciso: «Il mio lavoro finisce a ottobre». Sono solo alcune delle dichiarazioni con cui Franceschini rassicurava il Pd che il suo ruolo sarebbe stato super partes.
Franceschini non è celebre per mantenere la parola data e le vecchie amicizie. Si racconta che quando nella sua Ferrara fu delegato a trattare la candidatura di un suo amico, a notte inoltrata l’amico era fuori e lui si era messo al suo posto. È stato con Franco Marini e lo ha tradito, con Prodi e ne ha parlato male per cinque anni, con Francesco Rutelli, che ha abbandonato a metà percorso. Veltroni ha fatto appena in tempo ad andarsene prima lui.
La sua rinascita porta comunque proprio il nome di Walter Vetroni. Fino ad allora era stato un annoiato e indolente capogruppo dell’Ulivo alla Camera dei deputati. Pochi discorsi parlamentari, alcuni efficacemente polemici contro Silvio Berlusconi, e un caos completo nel gruppo che improvvisamente scoprì la nostalgia per Luciano Violante. A me disse, quando in dissenso con la formazione del Pd mi accingevo a lasciare i Ds poco prima che questi si sciogliessero, di «tenere duro. Arriverà una cosa nuova». Non capii il significato di quell’invito nei giorni in cui ci si dibatteva fra Rutelli e Fassino e il nuovo Pd sembrava morire sul nascere. Qualche tempo dopo, sceso in campo Walter Veltroni, mi ricordò: «Che ti avevo detto?». Di Walter è stato il silenzioso alter ego. Talmente silenzioso che raccontano soffrisse dello strapotere del suo vecchio compagno di partito Beppe Fioroni, che si era barricato all’Organizzazione, e di Goffredo Bettini, a cui una volta in Segreteria lasciò la sedia accanto al segretario come ironico riconoscimento della supremazia.
Dopo le dimissioni dell’ex sindaco di Roma divenne il segretario pro tempore. «Il vice disastro» come disse fraternamente Matteo Renzi, democristiano come lui ma non suo ammiratore. Ereditava un partito ai minimi termini, diviso dalle lotte intestine, con sondaggi da paura. L’esordio piacque a tutti, anche alla maggioranza di governo. In poche settimane tirò fuori due o tre idee su come reagire alla crisi aiutando i più svantaggiati. Per un breve lasso di tempo sembrò il segretario riformista che tutti si attendevano. Serio, accattivante, concreto. Quando scoppiò lo scandalo della lettera di Veronica Lario colpì tutti quella frase: «Fra moglie e marito non mettere il dito» che sembrava rompere con l’antica consuetudine di cavalcare tutte le sventure private e giudiziarie del Cavaliere.
Poi Repubblica gli fece cambiare idea. La sua segreteria sarà ricordata come la prima segreteria in cui un leader della sinistra ha preso la linea dal giornale di riferimento. L’ho già scritto. In poche settimane passammo dal giornale che fiancheggiava un partito, a un partito che fiancheggiava un giornale. La campagna per le europee fu un susseguirsi di anatemi sulla vita privata del premier fino alla gaffe che provocò la sollevazione irritata dei figli di Berlusconi. Ha celebrato il dopo voto come una vittoria, malgrado il crollo dei consensi e la perdita di quasi tutta la dote di amministrazioni di sinistra ereditate dal passato.
La sua segreteria ha segnato la sconfitta dei vecchi Ds. Non c’è posto di comando in cui non abbia insediato un ex democristiano o un dirigente della Margherita. Ha difeso i suoi uomini con veri e propri blitz, come quello che ha portato David Sassoli a diventare capogruppo nell'europarlamento quasi senza discussione. Dietro di lui si è schierata tutta la vecchia guardia popolare, con pochi voti e un grande controllo nelle preferenze e nelle nomenklature periferiche che sono riuscite quasi dappertutto a sbaragliare quelli che un tempo sembravano i temibili e organizzativissimi ex comunisti. Adesso conta sull’appoggio di Veltroni che potrebbe rivelarsi un boomerang. L’ex segretario non gode di buona stampa nel partito dopo il suo abbandono che per gli ex diessini fa il bis di quello del 2001. Probabilmente Franceschini cercherà di tirare dalla sua parte qualcuno dei quarantenni, promettendo a tutti ribalta e onori.
Il suo concorrente Pierluigi Bersani farà leva sull’antica sinistra, e sull’alleanza con Enrico Letta. Arturo Parisi, a nome dei prodiani, non promette sconti né all'uno né all’altro candidato ma il richiamo al Lingotto lo esporrà in prima fila contro Franceschini.

Si annuncia una contesa dura ma non appassionante. C’è spazio per una terza candidatura che sbaragli le prime due. Si parla di Chiamparino o di Penati. I «nuovisti» sono ancora alla ricerca di un nome nuovo e giovane. D'Alema e Veltroni affilano le armi.

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