Quando ebbi modo di conoscerlo, alla fine degli anni Settanta Epicarmo Corbino era ormai anziano, ma non aveva perduto nulla del suo naturale carisma e della sua carica ironica né di quell'anticonformismo un po' barricadero, di cui aveva dato dimostrazione all'epoca della cosiddetta «legge truffa». Sandro Pertini lo aveva chiamarlo, con una battuta destinata a rimanere famosa, il «Pietro Micca della politica». Le cose erano andate così. Nel 1953, egli, lasciato il Pli ed entrato nel gruppo misto, fondò un partito, l'Alleanza Democratica Nazionale (Adn), che ottenne, è vero, pochi voti ma sufficienti a impedire che scattasse il meccanismo maggioritario previsto dalla legge elettorale voluta da De Gasperi e dagli alleati per stabilizzare il governo: la sua fu, davvero, un'azione alla Pietro Micca.
A proposito di Pertini mi torna alla mente un episodio. Con Corbino, io e gli altri autori degli Annali dell'economia italiana, fummo ricevuti al Quirinale per presentare l'opera che riprendeva, portandolo fino al 1970, l'omonimo lavoro scritto proprio da Corbino per il periodo compreso fra il 1861 e il 1914. Era il 1981 e Pertini aveva nominato Eduardo De Filippo senatore a vita. Corbino, che aspirava a quell'onore, non l'aveva digerita. Il giorno dell'incontro era euforico, un po' per il fatto di rivedere dopo tanto tempo il Presidente e un po' perché si riprometteva di rampognarlo per la nomina. Naturalmente, non successe nulla: Pertini, vecchia volpe politica capì l'antifona e, non appena dalle labbra di Corbino uscirono le parole Napoli e De Filippo, si lanciò in una divertente arringa sulla città e sulla cultura partenopea. E tutto finì lì.
Epicarmo Corbino (1890-1984) non era napoletano, ma siciliano di Augusta. Tuttavia a Napoli aveva trascorso gran parte della sua vita. Proveniva da una modesta famiglia di artigiani e uno dei suoi fratelli, maggiore d'età, Orso Mario, sarebbe diventato un famoso fisico nucleare. Diplomatosi in ragioneria, Epicarmo, non potendo proseguire gli studi per motivi economici, cercò un lavoro stabile e nel 1911, per concorso, divenne ufficiale nelle capitanerie di porti. Intanto aveva coltivato interesse per le questioni sociali e passione per la lettura dei classici dell'economia. Cominciò a svolgere un'intensa attività pubblicistica su diversi quotidiani e riviste importanti come La Riforma Sociale diretta da Luigi Einaudi, L'Unità di Gaetano Salvemini, La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti, il Giornale degli Economisti.
Pur non laureato, fece una bella carriera accademica. Si definiva con un pizzico di civetteria «autodidatta», ma in realtà alla sua formazione avevano contribuito consigli e indicazioni di alcuni grandi economisti del tempo da Umberto Ricci a Giorgio Mortara, da Luigi Amoroso a Luigi Einaudi che aveva cominciato a frequentare. Soprattutto con l'ultimo egli ebbe un legame così profondo che, quando questi si trovò costretto nel 1926 a lasciare il Corriere della Sera gli scrisse: «Non possiamo non volerne a un sistema politico che ha soppresso il più efficace e vasto insegnamento di economia politica che esistesse in Italia. Che epoca triste!».
Con Einaudi condivideva molte cose: l'antifascismo, il liberismo, l'avversione contro la burocrazia e la stessa concezione di un liberalismo «pragmatico» che prescindeva dalla forma-partito perché per lui, come disse in un comizio, «l'idea liberale» rappresentava «la chiave con cui i problemi economici e politici vogliono essere risolti». Se il suo liberalismo era «pragmatico» il suo liberismo era rigido, tanto che Guido Carli lo definì, a mio parere ingiustamente, «primitivo» e decisamente «irritante e provocatorio» per le sinistre.
Delle sue idee un gustoso assaggio è offerto da un bel volume curato da Roberto Ricciuti, Epicarmo Corbino e le delizie del protezionismo (IBL Libri, pagg. 244, euro 14), pubblicato a ridosso del quarantesimo anno dalla sua scomparsa. Il libro presenta, preceduti da un approfondito studio introduttivo, alcuni suoi scritti del periodo compreso fra il 1917 e il 1921. Si tratta di testi che affrontano con chiarezza e rigore logico temi come il commercio internazionale, la competitività delle imprese, il sindacalismo, i salari e la partecipazione agli utili, l'interventismo dello Stato e via dicendo. Il primo di tali scritti, quello sulle «delizie del protezionismo» è costruito sul modello dei dialoghi platonici come conversazione fra un economista e otto personaggi espressione della società civile e politica.
Corbino, però, non è solo il teorico e il polemista che emerge dagli scritti di questo volume. È anche uno storico. Gli Annali dell'economia italiana (1931-1938) lo dimostrano bene trattandosi di un'opera divenuta un punto fermo per gli studiosi. A proposito di essa, egli disse ironicamente a Indro Montanelli che lui, antifascista e firmatario del Manifesto di Croce, si sentiva grato a Mussolini: «Gli debbo due decenni di assoluta pace, il che vuol dire tutta la mia cultura, che in quella pace si maturò. I cinque volumi di Annali dell'economia italiana non avrei certo potuto scriverli, se ci fosse stata la democrazia e di conseguenza avessi dovuto fare il deputato o il ministro». Un altro lavoro storico che merita di essere ricordato per il suo carattere innovativo fu La battaglia dello Jutland vista da un economista (1937) che presentava quello scontro come emblematico dell'urto non solo e non tanto tra due flotte quanto piuttosto fra due diverse organizzazioni economiche e nazionali e, quindi, due diverse mentalità.
Il Corbino più conosciuto è, però forse, quello dell'immediato secondo dopoguerra: il ministro dell'Industria nel secondo governo Badoglio e del Tesoro nel primo governo De Gasperi, il costituente, il parlamentare liberale, il banchiere, nonché l'intellettuale interlocutore di Benedetto Croce e di Giustino Fortunato. Piccolo di statura ma grande d'ingegno, Epicarmo Corbino, uomo generoso e moralmente irreprensibile ma dal temperamento irruento e focoso, fu davvero uno dei protagonisti della ripresa economica del secondo dopoguerra. Come ministro del Tesoro impostò una politica deflazionistica, di contenimento della spesa pubblica, di liberalizzazione del mercato interno e internazionale: una politica che trovava una sponda, se non addirittura una regia occulta, nel suo venerato «maestro» Luigi Einaudi.
E quando, dopo i fasti della ricostruzione e la conclusione della stagione del «centrismo», si ritrovò praticamente fuori dalla vita politica non fece mancare la sua voce polemica, in veste di commentatore, contro l'apertura a sinistra, la nazionalizzazione dell'energia elettrica, contro la degenerazione partitocratica del sistema. Una voce autorevole e di buon senso: liberale nel senso più autentico del termine.
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