La natura del potere svelata dal coronavirus

Pensare che il Potere si possa eliminare dalle umane faccende, è non solo errato ma anche stupido. E perciò pericoloso

La natura del potere svelata dal coronavirus

P ensare che il Potere si possa eliminare dalle umane faccende, è non solo errato ma anche stupido. E perciò pericoloso. Al massimo, il potere lo si può addomesticare. Nell'unico modo possibile, che è quello indicato dal liberalismo classico: provando a dividerlo, opponendo a ogni potere un contropotere che lo limiti e nella misura del possibile lo controlli. In verità, è proprio questa vecchia sapienza liberale che è venuta meno negli ultimi trent'anni, in quella che è stata definita come «età della globalizzazione» e che è suppergiù finita dalle parti di Wuhan questo inverno. E il paradosso è che la globalizzazione si è realizzata per opera e convinzione di una élite, transnazionale e cosmopolitica, che si è detta liberale, pur non essendolo affatto. Perché ha preteso che il potere diventasse semplice amministrazione, un insieme di regole da prendere e accettare perché in sé acclaratamente giuste e «universali». Regole economiche e regole morali, utopia liberista più utopia liberal. Con la politica, che è lotta e conflitto per affermare interessi e ideali sempre particolari, messa alle porte. Anzi, chi osava mettere in dubbio questo disegno, cioè quanto veniva partorito nelle segrete stanze ove l'élite mondiale operava indisturbata, era non solo un errante, ma un reprobo, un quasi delinquente da escludere e mettere alle porte del dibattito pubblico. Era, per dirla con un linguaggio dalla fortuna recente e abusato, un «populista» e «sovranista»: termini ricettacolo ove veniva raccolto un po' tutto quel che non piaceva perché in contrasto con l'illuminato progetto razionalistico che si stava mettendo in atto. Ma gli sporchi e brutti populisti son cresciuti sempre più rapidamente e a nulla è valso esorcizzarli. Sono andati persino al governo: in Italia e nei paesi guida dell'Occidente, quelli anglosassoni. Essi ci hanno ricordato che la politica non si può silenziare, che il vecchio Thomas Hobbes con il suo disincantato e cinico realismo la sapeva più lunga di Milton Friedman e John Rawls messi insieme. Ed ecco che son ricomparsi i vecchi Stati a farla da padrona: a volte direttamente, accampando i propri diritti, altre volte snaturando dall'interno gli organismi sovranazionali facendo pesare in essi senza più ipocrisie la propria forza e il proprio peso specifico.

Chi si era illuso che i vecchi Stati sovrani stessero per morire ha dovuto rapidamente ricredersi. E anche in questo caso è tornato in campo Hobbes, che dello Stato moderno, e della sua sovranità assoluta, è stato il massimo teorico. La sovranità, nel pensatore inglese, come è noto, aveva uno scopo ben preciso, e proprio perciò era assoluta: garantire la vita, quell'esistenza individuale che in un ipotetico «stato di natura»» sarebbe ogni momento minacciata dalla guerra di tutti contro tutti. L'uomo è infatti naturalmente, secondo lui, «lupo all'altro uomo», tende a prevaricarlo e a sopraffarlo. La vita di ognuno è in ogni momento minacciata da quella degli altri. Per uscirne non c'è allora che una via: quella di affidare a un'entità terza l'esercizio della forza (o anche solo la minaccia di poterlo fare). Al Leviatano, a questo «mostruoso» costrutto artificiale ma pure tanto reale, va perciò assegnato il legittimo monopolio della forza e della violenza di cui i singoli si sono spogliati.

Questo pessimismo antropologico che Hobbes avevo appreso sin da giovane traducendo in inglese la Guerra del Peloponneso di un altro maestro del realismo politico, Tucidide, è confermato in tutti i liberali classici: «Se gli uomini fossero angeli, non ci sarebbe bisogno del potere», diceva James Madison, uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti. Il quale, essendo appunto liberale, aggiungeva poi che «se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo diverrebbe superfluo». Perché questo è il punto. Il liberalismo politico, quello che si è messo alla prova con le sue istituzioni in questa parte di mondo che si chiama Occidente, si è basato sempre sullo Stato e sulla logica del potere elaborata da Hobbes. Certo, Hobbes non era un liberale, era un assolutista, ma la strategia di pensiero da lui adottata era rimasta immutata anche nei liberali: è quella su cui si è fondata la politica della modernità. I liberali non hanno fatto altro che modificare e complicare il quadro, chiedendo allo Stato di proteggere non solo la vita, cioè l'esistenza di tutti, ma anche altri diritti ritenuti fondamentali: la libertà di pensiero o opinione, di movimento, di associazione, di impresa e commercio. In sostanza, i diritti civili. Su questo tronco i democratici hanno aggiunto l'uguaglianza davanti alla legge e il diritto di voto (diritti politici); i socialisti, il diritto ad una «equa» ripartizione delle ricchezze (diritti sociali). Fra l'altro, i liberali non si sono mai stancati di dimostrare come i diritti sociali, almeno oltre una certa misura, entrassero in contrasto e contraddicessero quelli liberali, e come pertanto i due andassero messi in rigoroso ordine gerarchico.

Pochi liberali, a dimostrazione forse del fatto che la loro è comunque un'ideologia del progresso, o meglio ottimista, hanno però fatto i conti con lo stato di emergenza, con l'eccezionalità di alcune situazioni che possono capitare all'umanità sul proscenio della storia, come è indubbiamente questa del Covid 19. Fra le eccezioni, è sicuramente da annoverare Benedetto Croce, il cui liberalismo era molto più tragico di quanto possa apparire. Il filosofo napoletano, in polemica con Luigi Einaudi, osservò come anche le libertà più care, a cominciare da quella d'impresa che stava a cuore all'amico economista, in certe situazioni limite potessero essere soppresse per salvare un bene superiore. Per Croce questo bene era la Patria, e questo è un altro elemento non secondario del nostro discorso. Ma come, direbbe un liberal o un liberista astratto, un globalista cosmopolita, la Patria va anteposta alla libertà? Non è la Patria un semplice artificio, essendo l'umanità una sola e l'uomo titolare di diritti che valgono sempre e comunque, universali? Non è proprio per questo che sono state create le organizzazioni di diritto ed economiche sovranazionali? Senonché, ad una analisi attenta, si scorge il carattere sofistico di questa che sembra a tutta prima un'osservazione autoevidente. La libertà che non è situata, cioè limitata da un contesto, da una tradizione, da una comunità di valori tramandati dai padri, si erge infatti nel vuoto e finisce per contraddirsi diventando arbitrio nichilistico.

Forse nessuno più di Augusto Del Noce ha messo in luce, certamente da una prospettiva non liberale, questa dialettica della libertà. L'uomo diventa allora un atomo isolato, disincarnato, facile preda di un potere unico e irresponsabile (non democratico), e quindi dell'omologazione e del conformismo. Lo Stato-Nazione storicamente è stato proprio una risposta a questo pericolo. Ed ha svolto una doppia funzione «liberale»: da una parte, quella di mediare e rendere concreta, cioè effettiva, la libertà; e nel contempo, dall'altra parte, quella di esaltare la diversità e le differenze che rendono viva l'umanità. Una doppia funzione che l'ideologia globalista, sedicente liberale, ha pensato che si potesse impunemente calpestare. Ritornando all'emergenza pandemica, non credo che si esageri nel dire che essa è paragonabile ad una guerra nei suoi effetti. Come in guerra, siamo stati infatti costretti a mettere fra parentesi le libertà fondamentali per preservare la vita: John Locke ha dato gli onori delle armi e ha ceduto il posto a Hobbes. C'è però un elemento a mio avviso che complica il quadro. Se è infatti vero che l'ideologia globalista è la grande sconfitta di queste settimane, questo non significa che la globalizzazione lo sia altrettanto. Essa, prima di un modo di pensare, è un fatto. Il mondo è diventato uno nei fatti, indipendentemente dall'ideologia che ha supportato o ha voluto accelerare questo processo. Il problema che ora ci si presenterà sarà proprio quello di ristabilire il senso della comunità, a cominciare da quella che corrisponde alla propria Nazione e al proprio Stato, in un mondo che è diventato un «villaggio globale». Globalizzazione, da questo punto di vista, significa essenzialmente due cose: informazione e comunicazione in tempo reale fra gli umani; «accelerazione del progresso» tecnico (e non ovviamente di quello morale, per principio impossibile). Ma se Comunicazione e Tecnica, come il virus ci ha insegnato, non cancellano minimamente la struttura umana, la sua ontologica finitezza, i suoi limiti, essi sicuramente ripropongono l'eterno e incancellabile tema della politica, del potere, in un modo eguale, ma anche tanto diverso, rispetto a come lo aveva posto Hobbes e in genere la modernità.

Dicevamo che proprio questa lucida consapevolezza della necessità del potere, e quindi della politica e dello Stato, si è perduta nei non troppo favolosi anni della globalizzazione trionfante. Come sempre accade con le ideologie, quella globalista, da una parte, aveva un seguito di gonzi entusiasti (quelli non mancano mai nel genere umano) e, dall'altra, copriva concreti e materiali interessi politici sotto la coltre del benessere liberista e del buonismo correttista. Un'ideologia del progresso che per sua natura non ammetteva le crisi, e le emergenze. E infatti Covid 19 l'ha trovata impreparata e l'ha costretta a rivedere le proprie certezze. Da ogni parte, anche dalle più insospettabili, si è cominciato perciò a chiedere allo Stato, per tanti anni visto come la causa di ogni male, ogni tipo di cose e soprattutto la protezione e la sicurezza personale. E come in tutte le situazioni di emergenza si è avvertita l'esigenza di una risposta altrettanto emergenziale, che mettesse in fila i diritti da sacrificare e fosse rapida e tempestiva (come colpevolmente non è stata quella del governo italiano attuale). Il fatto è che però, proprio perché la globalizzazione come fatto non è morta, dovremo abituarci a un mondo ove le emergenze, cioè i pericoli estremi perché non circoscrivibili, saranno sempre di più, si susseguiranno incessantemente.

Si potranno mettere sempre tra partentesi le libertà liberali, la forma e la sostanza della democrazia? Non si finirà per disibituarci ad essa? E senza libertà che umanità sarà la nostra futura? È in quest'ordine di questioni che si giocherà il futuro. Ma intanto una cosa abbiamo capito: senza politica, senza Stato, senza senso del limite e della storia, il liberalismo semplicemente non è.

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