Durante gli anni della mia formazione esisteva un solo critico letterario, in Italia, di cui mi fidassi ciecamente. Scriveva su L'Espresso e il suo nome, oggi dimenticato, era Paolo Milano. Conservo di lui un libro soltanto, Note in margine a una vita assente (Adelphi 1991), ma più belle erano le brevi recensioni, che a quanto mi risulta non sono mai state raccolte in volume.
Nel giorno preciso del mio ventesimo compleanno lessi (ricordo ancora l'esatto punto della casa in cui mi trovavo, seduto per terra) un articolo di Paolo Milano in cui dichiarava che il più grande scrittore del mondo era Isaac Bashevis Singer, che a quel tempo non avevo mai nemmeno sentito nominare. Ne restai colpito perché a quel tempo leggevo avidamente Borges, ed ero convinto che il più grande fosse lui, e che nessuno potesse dubitarne. Incontrai fisicamente i libri di Singer pochi giorni più tardi su una bancarella di via Fabio Filzi, un centinaio di metri dopo la chiesa di San Gioachimo (con la emme) e ne acquistai quanto potevano le mie tasche: Il mago di Lublino, Un amico di Kafka, La famiglia Moskat e Alla corte di mio padre. Tutti targati Longanesi, tutti di piccole dimensioni, con la copertina rigida color avorio e una gradevole sovraccoperta. Decisi di leggere per primo Alla corte di mio padre e me ne innamorai profondamente. Non avevo mai letto nulla di simile, e sono persuaso ancora oggi che, se qualcuno vuole imparare come si racconta una storia, ha due possibilità: o iscriversi a una costosa scuola di scrittura, o leggere Isaac Bashevis Singer.
Poi il libro andò perso, chissà, forse si è nascosto in qualche angolo della mia casa di ragazzo, oppure l'ho prestato e non è più tornato. Longanesi lo ripubblicò ma l'edizione era più brutta, anche se la traduzione (di Rosanna Pelà) era pregevole. Tutte e due le volte il libro era corredato da un dizionarietto, perché i racconti di Singer sono ambientati perlopiù in villaggi ebrei (shtetl) dell'Europa centrale oppure nel ghetto di Varsavia e molte parole, sia in ebraico che in jiddish (la lingua in cui Singer scrisse metà delle sue opere) erano intraducibili.
Peccato che il dizionarietto e altre piccole cose manchino nella nuova edizione Adelphi di questo capolavoro (pagg. 330, euro 20) che pure si avvale della traduzione di Silvia Pareschi, una che non sbaglia quasi mai e della quale siamo tutti debitori come di una scrittrice a pieno titolo. Qui però ci sono problemi che vanno oltre la traduzione in senso stretto, ma ne parleremo tra poco. Prima concentriamoci su questo capolavoro. Sono quarantanove racconti (numero sacro per gli autori di short stories) in cui lo scrittore racconta la propria vita di ragazzo accanto al padre rabbino e ai tanti casi che la vita della comunità ebraica sottoponeva al giudizio della Legge e dei Profeti. Quello che sbalordisce è la dote rara di Singer, quella che Mario Luzi chiamò «naturalezza», ossia la capacità di tradurre situazioni narrative molto complesse in forme semplicissime senza tradirne la complessità. Il modello di Singer era, non a caso, Tolstoj. Storie complesse in racconti semplici, dove la vita - varia, imprevedibile, scioccante, tenera, spaventosa - sgorga dalla memoria come un fiotto arterioso. In esse il lettore semplice potrà trovare il puro piacere della lettura, immergendosi in un mondo affascinante molto diverso dal nostro. Lo storico ne potrà ricavare un documento vivo di quelle tradizioni giuridico-religiose che permisero per secoli l'esistenza degli ebrei nella diaspora. Il cultore delle Lettere, infine, resterà stupefatto dalla capacità dello scrittore di mutare la tradizione orale in trina finissima, in supremo artificio per poi nascondere l'artificio lasciandoci a contatto (ma è un'illusione) con una materia che sembra nascere sotto i nostri occhi.
Inutile fare esempi: bisognerebbe commentare uno a uno tutti i brevi racconti di questa grande opera. Vi basterà leggere il primo, la storia di un divorzio, per constatare in quanti modi si può chiudere un racconto, e quanta luce una chiusa può gettare sul suo senso profondo. Non esiste un modo di scrivere storie, esiste il modo in cui le storie chiedono di essere raccontate: questo differenzia lo scrittore medio dal genio. La difficile convivenza tra sapienza millenaria e modernità, tra mistero e incredulità, la battaglia mai conclusa tra chi afferma Dio e chi lo nega possono essere rappresentate solo dal genio e dalla sua forza trans-culturale, trans-linguistica. E Singer era un genio.
Ma una forza come questa vuole un ricettacolo adeguato. Esistono barriere culturali (oggi più di ieri, ahimé) per le quali non è sufficiente una buona traduzione. Certi autori devono essere presentati, introdotti o re-introdotti in un contesto come il nostro sempre più vario ma meno ricettivo, sempre meno pronto ad accogliere la diversità con le sue parole, i suoi abiti, i suoi odori. Dobbiamo poter sentire la lingua che sta sotto la nostra, immergerci nella sua estraneità, coglierne il mistero. E qui dizionarietti o note a piè di pagina sono necessari. E non solo quelli.
Per farmi capire meglio cito il finale di uno dei tanti racconti del libro.
«Era una sera d'estate, e il cielo sembrava infiammato da tizzoni roventi, scope infuocate e bestie feroci. Si udivano ronzii, mormorii, il gracidio delle rane. Il carro si fermò e io vidi un treno, una grossa locomotiva con tre lampade luminose come il sole seguita da vagoni merci che avanzavano lenti, come assorti. Sembravano venire dal nulla e dirigersi oltre la fine del mondo, dove incombeva l'oscurità. Scoppiai a piangere. Mia madre disse: Perché piangi, sciocchino? È solo un treno. So benissimo cosa vidi allora, un treno con dei vagoni cisterna, ma lo circondava un alone di mistero che non ho mai dimenticato».
Perché un alone di mistero quando l'originale recita a sense of mistery? Perché ridurre il «senso» a un «alone»? Il senso (sentore, sentimento, forse turbamento) è ciò che fa piangere un bambino, che da grande l'avrà ancora in testa,
tale e quale. Non ci sono aloni, gli aloni sono la consolazione di un mondo che col mistero ha già chiuso i conti da un pezzo. Ma per Singer era differente, e queste differenze vanno custodite prima di essere interpretate.
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