Così gli uomini nominano Dio invano

Storia di un nome che non ha confini. In libreria un volume del Mulino che spiega genesi e motivi alla base di uno dei più noti e infangati comandamenti della Bibbia. L'Onnipotente menzionato a sproposito nei tribunali, nei parlamenti

Lo abbiamo imparato da piccoli. A catechismo. Anni nei quali non ci si spiegano fin troppe cose. Anche se sono altri a spiegarle. Da un pulpito. O semplicemente da una cattedra all'oratorio. Anni in cui si manda a memoria. Anni nei quali si stipano nel magazzino della mente concetti che raramente sono il frutto di un racconto storico. Anche per questo «Non nominare il nome di Dio invano» (Il Mulino, pp.167, euro 12) chiarisce dubbi e interrogativi intorno a uno dei comandamenti più noti e meno osservati della Bibbia.
Carlo Galli e Piero Stefani ne conducono infatti un'analisi approfondita e importante che mette in luce gli aspetti di questo imperativo divino, esaminandolo sia dal versante storico, sia da quello più prettamente religioso. In nome di Dio si sono pronunciate sentenze giuridiche che condannavano colpevoli o, talvolta, presunti tali. In nome di Dio ci si rivolgeva al Parlamento. Un caso fu Oliver Cromwell, nel 1653, al Rump parliament e, sempre in Inghilterra, la celebre invocazione di un parlamentare al premier in carica, alla vigilia della seconda guerra mondiale, quel Neville Chamberlain favorevole all'appeasement, mentre Hitler si accingeva a minacciare Londra: «In nome di Dio, vattene». Ci volle ancora tempo, ma poi Chamberlain obbedì. E lasciò la carica. Il nome di Dio riecheggiava nelle Costituzioni, insomma il nome di Dio - invano o necessario che fosse - veniva pronunciato spesso, se non sempre.
Un comandamento largamente disatteso, dunque, che non tiene conto dei frequenti casi di blasfemia, i quali tuttavia non rappresentano altro se non un'occasione volgare, tutt'altro che meritevole di menzione in un contesto colto. Nelle pagine del volume viene quindi spiegata la genesi e il significato di quel comandamento così perentorio. Dio sarebbe, nei pensieri come nel nome, pura trascendenza. Sarebbe, in buona sostanza, un non nome perché al suo interno nasconderebbe un insieme di significati che abbracciano l'infinito. Questa non finitezza spiegherebbe perché sarebbe insulso pretendere che un essere umano nomini l'Onnipotente, riconoscendo che Dio è associato all'azione e alla gloria, più che a un'identità specifica. Dio non è riproducibile per immagini. Dio è sostanza e, come tale non fonda un popolo, ma ne sceglie uno e lo conduce a salvezza.
Per tutte queste ragioni egli è spesso indicato come Padre, a simboleggiare una relazione e non un soggetto preciso. E un nome non lo ha neppure il Figlio, benché Gesù lo si possa considerare tale mentre Cristo sarebbe un aggettivo (l'Unto, il Messia).

E un nome non lo ha neppure la relazione fra Padre e Figlio, cioè lo Spirito, un altro nome che è in definitiva un non-nome. Dopo oltre duemila anni da quando Mosè ricevette le tavole della legge, insomma, Dio è stato nominato più spesso invano che in modo pertinente.

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