La Costituzione (spiegata ai pupi) di Violante

Chi scrive oscuro o è un imbecille che non ha nulla da dire o un manigoldo che ha qualcosa da nascondere. Non ricordiamo più chi l’ha detto. Fatto sta che per essere un giurista, Luciano Violante ha il dono di farsi capire. La prova è il suo brillante libriccino Lettera ai giovani sulla Costituzione (Piemme) dove dialoga con due ragazzi sulla suprema legge della Repubblica.
Molte le considerazioni degne di nota. Ecco una prima «chicca». Riabilita Cossiga, pensate, perché dal Quirinale denunciò le miserie della Prima Repubblica. Violante poi ha certamente ragione quando osserva che «se si discute di riforme profonde della Costituzione, è segno che la Costituzione va superata. Ma se quelle riforme non vengono realizzate, resta l’indebolimento dell’esistente, senza alternative per il futuro». Senz’altro da sottoscrivere è pure quest’altra affermazione: «Le Costituzioni possono e devono essere riformate, quando se ne presenti la necessità; ad esempio, per una maggiore funzionalità e per un migliore sviluppo dello stesso sistema costituzionale».
Orbene, dichiarazioni impegnative come queste, alla vigilia del referendum del 25 giugno, sembrerebbero un avallo alla riforma costituzionale di Berlusconi. Ma poi si redime, dicendo peste e corna della predetta riforma con argomentazioni poco convincenti. Forse vuol dire che ci dovremo tenere una Costituzione pensata in un tempo che pare lontano anni luce? Smaliziato com’è, Violante non esclude modifiche costituzionali, purché fatte con giudizio. A un certo punto poi si domanda ironicamente se la nostra sia una Carta in certo qual modo sovietizzante. Certo, lo nega nella maniera più assoluta. Ma poco dopo si contraddice: «Emerse allora un dato essenziale: la Costituzione non era l’imposizione di una maggioranza a una minoranza: siglava un patto tra avversari, non tra nemici. Quegli avversari, nonostante la durezza dello scontro politico, avevano dimostrato grandezza di spirito perché credevano nella necessità di costruire l’unità della nazione italiana e intendevano lavorare, sia pure con prospettive diverse, non per il proprio tornaconto ma per il futuro del Paese». Quel «sia pure con prospettive diverse» vale un Perù. Non è un mistero che il Pci allora voleva fare dell’Italia una «democrazia progressiva» come quella che calcava la scena nell’Urss e nei Paesi satelliti. Se allora non scoppiò la rivoluzione non fu perché Togliatti aveva più cervello di un Secchia, ma perché Stalin non voleva grane, pago degli accordi di Yalta e Potsdam. Al Migliore bastava dare alla nostra Carta un’interpretazione tale da rendere il Paese una «democrazia popolare». Espressione che è una truffa.

Se questo non accadde, fu perché il 18 aprile ’48 prevalse la Dc di De Gasperi spalleggiata dai partiti di democrazia laica. Violante dovrebbe rallegrarsene. Dato che è una testa pensante, prima o poi avrebbe probabilmente fatto una brutta fine.
paoloarmaroli@tin.it

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