"Il crime è l'epopea dell'individuo contro il sistema"

Dal "Cartello" all'"Eneide", l'autore americano svela i trucchi del mestiere

"Il crime è l'epopea dell'individuo contro il sistema"
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Il romanzo crime parla la lingua di Don Winslow. Da quasi trent'anni è lui il maestro del genere, dall'Inverno di Frankie Machine alla Pattuglia dell'alba, dalla trilogia della droga (Il potere del cane/Il confine/Il Cartello) alle Belve, fino alla trilogia dedicata a Danny Ryan, l'Enea americano che passa dalla mafia irlandese del Rhode Island (Città in fiamme) a Hollywood (Città di sogni) e approda a Las Vegas, la Città in rovine (HarperCollins Italia). Che, a detta dello scrittore americano, resterà il suo ultimo romanzo.

Don Winslow, che cos'è la Città in rovine?

«A un primo livello parliamo dei palazzi di Las Vegas, che sono la scintilla del conflitto e finiscono distrutti. Un altro livello, invece, riguarda la vita di Danny, che cerca di ribellarsi al proprio destino, ma implode. E allora tutto crolla».

È anche il destino di tutti noi?

«Un po' sì. Le radici della distruzione, spesso, sono interne: forse lo stiamo sperimentando ora».

È una distruzione che arriva da lontano nella nostra Storia?

«Questa trilogia è basata sull'Eneide: la vita di Danny scorre in parallelo a quella di Enea. E, quando quest'ultimo va a fondare l'Impero di Roma, partecipa anche alla distruzione di un'altra società: ovvero, violenza e sangue. È quello che accade in questo libro».

Intende dire che la società non può esistere senza violenza?

«Non dico che non sia possibile, ma sono così numerosi gli esempi del fatto che la società passi attraverso la violenza... Non sarei pessimista, ma scrivo romanzi crime e la violenza ne è spesso parte».

Anche per questo li scrive?

«No. È che sono sempre stato interessato ai margini della società, alle aree e alle persone ai confini».

Il fatto che abbia lavorato come detective l'ha influenzata?

«Sicuramente mi ha introdotto nel mondo della criminalità, dei tribunali, della polizia e degli avvocati. E mi ha insegnato le tecniche di indagine: i metodi degli investigatori sono quelli che uso da scrittore».

Che cosa fa?

«Verifico i fatti, ascolto le confessioni. Faccio interviste e moltissimo lavoro investigativo sui documenti, sui rapporti della polizia, sulle trascrizioni dei processi».

Il linguaggio come nasce?

«Metto insieme il dialetto, il gergo di certi ambienti o sottogruppi criminali. E poi c'è il linguaggio non verbale, il più difficile da rendere in un libro, come i gesti usati per non farsi sentire».

La trilogia di Danny è molto diversa da quella della droga, per mole e stile. Perché?

«All'inizio non avevo concepito Il Cartello come una trilogia. Ma il crime è la mia vita e, dopo il primo romanzo, sono tornato a quel mondo e mi sono reso conto che, per raccontare una storia esauriente di ciò che è successo fra il Messico e l'Occidente, non potevo introdurre un elemento senza spiegarne un altro. Ho impiegato vent'anni».

Invece in questo caso?

«Mi ci sono voluti trent'anni a scrivere questa trilogia. Ma, siccome ho seguito le storie dell'Iliade, dell'Eneide e dell'Odissea e le tragedie di Eschilo, ho potuto farlo seguendo una linea più dritta, senza bisogno di diramazioni».

Come è entrato nei vari mondi dei suoi libri?

«Per quanto riguarda la droga, tutto è cominciato con un massacro di 19 persone: io vivo vicino al confine con il Messico, così ho iniziato a fare ricerche ed è nato Il potere del cane. Era il 1998. La polizia corrotta è stata un mondo ancora più difficile da penetrare di quello del narcotraffico: ho impiegato anni a intessere relazioni».

E i surfisti?

«Quei libri sono quasi una vacanza. Posso andare in spiaggia e lavorare... Quanto alla mafia, sono cresciuto in Rhode Island, dove aveva molta influenza; quindi mi è bastato consultare i miei ricordi».

Che rapporto c'è fra realtà e romanzo nel noir?

«La fiction rende sempre la realtà più romanzesca. Ciò che fa il noir è l'umano contro il meccanismo. L'individuo contro il sistema. Per me è qualcosa di molto potente».

Come nasce?

«Con la Seconda guerra mondiale: le persone erano stanche e cercavano una via d'uscita. La parola Beatnik compare negli anni Quaranta e significa I'm beat, cioè sono abbattuto da tutti quegli orrori e alla ricerca di una società diversa. Il noir si riferisce a questo».

Noir e cinema sono legati?

«Non credo ci sia un genere cinematografico così intrecciato e indistinguibile dalla fiction: ogni autore della mia generazione è

stato ispirato dai film. Da ragazzino li guardavo tutti: credo sia per Serpico e French Connection che scrivo noir. Penso che romanzi e film si parlino sempre l'uno con l'altro e che i migliori film noir vengano dai romanzi».

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