Pubblichiamo, per concessione dell’editrice Marietti 1820, il primo capitolo del romanzo Giro d’Italia con delitto, di Gian Paolo Ormezzano (pagg. 150, euro 12), in libreria fra pochi giorni. Salutare con un «giallo», in attesa della prima maglia rosa, la gara ciclistica è, per il giornalista e scrittore torinese, una provocazione e un atto d’amore. Il Giro (che partirà da Venezia con la crono a squadre sabato prossimo) quest’anno festeggia un secolo di vita, interrotto soltanto dalle due guerre, dal ’15 al ’18 e dal ’41 al ’45.
di Gian Paolo Ormezzano
Il sonno della corsa era finito. Gli ultimi giri erano sempre frenetici. La gente che era arrivata anche dai paesi vicini per assistere a quel circuito, sponsorizzato da negozietti locali, con premi speciali messi in palio dai cittadini più importanti del paese, aveva pure diritto allo spettacolo. E i manifesti avevano annunciato pomposamente la gara: anteprima del Giro d’Italia. Non ci fu neppure bisogno di una parola d’ordine: il plotone si divise in plotoncini. Cominciarono le accelerazioni. Qualcuno prese a pedalare in testa forsennatamente, sia pure per poche decine di metri, come se quella gara fosse per lui questione di vita o di morte (in verità lo era, di morte: per uno e uno solo, che stava meditando il delitto), o almeno questione di pane. In realtà tutti gli ingaggi erano stati decisi prima, e i premi divisi in partenza. Il televisore a colori per il vincitore non sarebbe mai uscito dal negozio di quel paese: era stato lasciato a priori al negoziante in cambio dei soldi, ovviamente a prezzo di fabbrica, e i soldi erano già stati teoricamente divisi all’interno della squadra di chi avrebbe vinto.
La corsa si era progressivamente intanto che automaticamente animata, ogni giro durava sempre un po’ di meno e dunque i passaggi si facevano un po’ più frequenti rispetto al tran tran iniziale. Non c’era un accordo preciso su chi dovesse vincerla, nessun corridore era nato in quel paese e dunque godeva del diritto di apparire come il più bravo nella volata, o addirittura di andarsene in vittoriosa fuga solitaria. Era già decisamente buio, il clima era giusto per maggio, si sudava di un sudore che sapeva di salute più che di fatica.
C’era molto interesse, moltissima curiosità. Persino i giovani all’apparenza scafatissimi assistevano interessati, plaudenti, e le ragazze si scordavano di applicarsi il cellulare all’orecchio: quando un telefonino suonava c’era quasi sorpresa, specialmente se il trillo o la musichetta arrivava a chi stava nella calca, serrato fra tanti sul bordo della strada o impegnato a ridurre con una fitta presenza fisica sin sull’asfalto il raggio delle curve strategiche, dove i corridori dovevano rallentare, così propiziando il loro riconoscimento. Tra la folla, perché proprio di folla si trattava, da chiedersi chi quella sera fosse rimasto chiuso in casa, qualche spettatore prendeva improvvise decisioni, come attraversare la strada, cercando l’altro lato per tentare di vedere meglio, o semplicemente cercando un ambulante che vendeva pizzette e bibite fresche. Convenuti per quella che era una festa oltre che una competizione, anche donne e vecchi e bambini tagliavano veloci e goffi la via dei corridori.
In quei circuiti di paese il pericolo di una caduta era moltiplicato per mille rispetto ai problemi e alle paure della corsa in linea, da un centro all’altro, senza avvitamenti fra le case, sotto lo stesso campanile, in mezzo a gente assortita, non tutta ciclofila e rispettosa dei corridori. Non c’erano quei lunghi tratti di strada in cui neanche un cane ti guarda. Né, in caso di volo sul terreno, poteva sempre bastare il leggerissimo casco obbligatorio (c’erano voluti dei corridori morti e dei corridori costretti a una vita da albero) fatto di listerelle di cuoio. E sarebbe stato idiota farsi male a pochi giorni dalla partenza del Giro d’Italia.
Giovanni Ballardin pedalava da un’ora a fianco di Piero Tanzi. Sempre così. Anche nella corsa più innocua, nel circuito più banale, finivano per trovarsi vicini. I loro gregari facevano un po’ da intercapedine, poi lasciavano perdere. Quei due volevano vedersi, guardarsi, annusarsi, quasi toccarsi specialmente in curva, quando ogni centimetro di strada diventa importante. La gente amava questa rivalità spinta, voleva che in ogni luogo fosse recitata almeno una parte del copione.
La volata fra i due più forti ciclisti italiani fu molto disputata. Contrariamente alle sue abitudini, era stato Tanzi a lanciare lo sprint. Di solito lui si metteva alla ruota di Ballardin, cercando di sopravvanzarlo negli ultimi metri, per via di quello scatto in più che sapeva di avere. Quella sera usò lo scatto per staccare Ballardin di una macchina, quando mancavano duecento metri. Gli altri corridori erano lontani: fra l’altro c’era il rischio di cadere, a mettersi fra quei due sempre impegnatissimi nella loro disputa personale.
Ballardin agganciò prima la scia, poi la ruota di Tanzi, quando mancavano cento metri. Procedeva nel tunnel che l’avversario gli scavava nell’aria, si sentiva come risucchiato. Erano pedalate facili, le sue, senza resistenza atmosferica. Restavano da coprire ancora cinquanta metri e provò a uscire allo scoperto, con un piccolo scarto. Ricevette come uno schiaffo dall’aria. Più difficile del previsto. Sapeva d’altra parte di non essere ancora alla forma grande, gli mancavano alcuni allenamenti duri, ed era giusto così. I calcoli erano quelli soliti, abbastanza precisi: arrivare al Giro d’Italia all’ottanta-novanta per cento, raggiungere il cento per cento o quasi con le prime tappe, quelle facili. Però gli dispiaceva sempre terribilmente finire dietro a Tanzi, quando accadeva qualcosa gli doleva dentro. Cercò quello che Visetti, il suo ex direttore sportivo, chiamava «lo spasmo vincente: una cosa che o ce l’hai o non ce l’hai e non potrai mai inventartela, né io mai potrò andare in giro a cercarla per te». La ruota anteriore ebbe uno scarto, andò a toccare la ruota posteriore della bicicletta di Tanzi, proprio mentre anche Tanzi aveva comandato al suo mezzo uno scarto. Verso sinistra Ballardin, verso destra Tanzi. Ci fu un rumore strano, era il mozzo della ruota di Ballardin che tranciava i raggi della ruota di Tanzi. Ballardin pensò: “Come l’affettatrice del mio salumaio, quando il prosciutto arriva all’osso”. Ultimo pensiero buffo, prima della caduta.
I due passarono il traguardo strisciando per terra, con le biciclette che facevano un rumore di metallo offeso, e mandavano scintille. Riuscirono entrambi a udire distintamente il grido della gente. Fu però una caduta di quelle che nel ciclismo si chiamano “da gatto”, una caduta guidata, con la solita benedizione di Dio perché nessuno si faccia molto male. Ballardin e Tanzi gestirono il volo quasi con calma, attraverso mosse lente da acquario, su un asfalto neppure troppo duro. Liberatisi i piedi dai cinghietti che li serravano nel pedale, rimanendo ancora a terra eseguirono, quasi in sincronia, alcuni movimenti di verifica. Ossa a posto, la caduta era stata tutta pagata in pelle. Cominciava il bruciore sulle cosce, cominciava a fiorire il rosso del sangue. Normale, per un ciclista: era quasi un suo maquillage.
Lo speaker con voce neppure concitata (era un professionista part-time, un ragazzo abbastanza stranamente ciclofilo e non calciomane, uno che riconosceva i corridori anche da lontano, gli davano pochi soldi ma lui sognava di decollare sino alle telecronache importanti) annunciò: «Tanzi trentaquattresimo, Ballardin trentacinquesimo, regolarmente classificati. Non ci sono stati danni, sembra. Nessun altro è caduto». Non aggiunse che nessun altro poteva cadere perché i due erano penultimo e ultimo del plotoncino, e pure staccati di qualche metro dagli altri. Come in molti circuiti a ingaggio, era quello il copione: se né Tanzi né Ballardin potevano vincere, non volendo sciupare forze o correre rischi, era tacito che i due si sistemavano bene in coda al plotoncino di testa, di mezzo o di coda in cui erano finiti insieme, e poi facevano il loro sprint, spesso per infliggersi l’ultimo posto. Una sorta di minisketch crudele, comunque la gente lo chiedeva, lo apprezzava. Di solito il penultimo era Tanzi, specie se prima del rettilineo d’arrivo c’era una curva, e veniva utile il guizzo speciale che lui possedeva. Ballardin arrivava invece penultimo nelle volate lunghe, in progressione, magari in leggera salita.
Quello sketch rituale era come il fiammifero per accendere la fiammella fissa della rivalità che poi si nutriva, nelle grandi corse, di vero combustibile. Una volta era Tanzi a vincere, un’altra era Ballardin. Oppure perdevano entrambi, ma ognuno dei due riusciva a convincere i suoi tifosi che non si trattava di demerito suo, bensì di colpa dell’altro. La storia era ormai vecchia, e tuttavia non riusciva a farsi antica, a diventare preziosa come era accaduto, nello sport e specialmente nel ciclismo, a tante altre storie di rivalità. Era una storia sicuramente non bella, spesso era anche brutta, triste, miserella, una storia che non diventava definitivamente squallida solo perché quei due, ogni tanto, si ricordavano anche di vincere. Già due Giri d’Italia Ballardin e uno Tanzi, che era più giovane. Era bastato perché i due occupassero tutta la parte più illuminata della vetrina ciclistica.
C’erano, della storia di quella rivalità acre, varie interpretazioni. Chi la diceva programmata all’inizio, artificiale al massimo, quando Tanzi, più giovane di tre anni, si era affacciato sul palcoscenico di Ballardin, e poi recitata così bene che entrambi avevano finito per assumere la parte come una vera seconda (o a un certo punto anche prima) natura: accade pure agli attori, a forza di recitare, superspecializzandosi, Amleto diventano dubbiosi, tentennanti nella vita. Qualcuno addirittura sosteneva che la recita di quella storia era l’unica risorsa per i due, i quali coltivavano una incipiente paura di sparire o essere “sfumati”, visto che urgevano nel ciclismo le cosiddette forze nuove, e si appoggiavano uno all’altro: dandosi spallate, ogni tanto, ma anche e soprattutto sostenendosi.
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