"I soggetti provenienti da uno Stato estero devono verificare la liceità dei propri comportamenti e la compatibilità con la legge che regola l'ordinamento italiano". Così la Corte di Cassazione, come riferito dal Corriere della sera, ha deciso di condannare padre, madre e fratello di quattro sorelle pakistane che hanno denunciato di essere vittime di maltrattamenti perché "non sono brave musulmane". La famiglia, che dispone di cittadinanza italiana, è stata portata a processo dalle ragazze con l'accusa di aver praticato si di loro violenza fisica, tra schiaffi, pugni e tirate di capelli, e verbale, perché le giovani "rifiutavano di studiare ogni giorno le sure del Corano" e per "obbligarle a indossare abiti tradizionali della cultura pakistana".
Tuttavia, le ragazze hanno sempre voluto condurre uno stile di vita occidentale e questo stato visto come un tradimento dalla famiglia, come una pretesa inconciliabile con la tradizione pakistana da cui loro provengono. La Corte di Cassazione, però, ha accolto in toto la linea tracciata dal presidente della Corte d'Assise di Brescia, Roberto Spanò, e sottolineato nella sua sentenza che gli stranieri devono rispettare l'ordinamento italiano e che "l'unitarietà di quest'ultimo non consente, pur all'interno di una società multietnica quale quella attuale, la parcellizzazione in singole nicchie, impermeabili tra loro e tali da dar vita ad enclavi di impunità".
Quello del giudice è un invito, se non un esortazione, al dovere di integrazione dei nuclei familiari stranieri nel tessuto sociale italiano, regolato da un impianto normativo ben definito e non derogabile. Al contrario, molto spesso gli stranieri che arrivano nel nostro Paese ignorano le leggi civili e proseguono nel seguire quelle religiose, secondo un impianto autorizzato nei Paesi di origine ma non in occidente. Sono numerosi gli esempi di maltrattamenti perpetrati ai danni di giovani donne, soprattutto, spesso nate e cresciute Italia che desiderano integrarsi ma che sono costrette a non farlo a causa dell'imposizione, talune volte violenta, della famiglia.
E sono ancora numerosi gli esempi di questo tipo che non vengono denunciati.
"In famiglia mi dissero che se non avessi fatto come dicevano loro avrei fatto la fine di Sana Cheema, la ragazza uccisa in Pakistan per aver detto no al matrimonio combinato", disse a processo la più grande delle tre sorelle. Padre, madre e fratello sono stati condannati dalla Corte di Cassazione a 5 anni di reclusione e le ragazze saranno ora seguite in un processo di inserimento.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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