Sparatoria cascina Spiotta, altro colpo di scena. Indagato un terzo ex brigatista

Un'altra svolta nell'indagine sulla sparatoria dove morì Mara Cagol, moglie del fondatore delle Br Renato Curcio e il carabiniere Giovanni D'Alfonso. Intanto la sentenza di proscioglimento di Azzolini non si trova

Nella foto Renato Curcio, anche lui indagato
Nella foto Renato Curcio, anche lui indagato
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C’è un nuovo indagato nell’inchiesta della procura di Torino sulla sparatoria avvenuta alla cascina Spiotta, in provincia di Alessandria, dove il 5 giugno 1975 morirono Mara Cagol, moglie del fondatore delle Brigate Rosse Renato Curcio, e un appuntato dei carabinieri, Giovanni D’Alfonso. I Ris dei carabinieri, infatti, hanno rilevato le impronte dell’ex brigatista milanese Pierluigi Zuffada, oggi 78enne, sulla lettera di richiesta di riscatto per un miliardo fatta pervenire all’avvocato della famiglia di Vittorio Vallarino Gancia, l’industriale sequestrato e tenuto segregato proprio alla Spiotta.

Collega alla Sit Siemens di Mario Moretti, Zuffada fu arrestato nel 1975, venti giorni dopo il sequestro Gancia, a Baranzate di Bollate. Era uno dei membri delle Brigate Rosse della prima ora e il 18 febbraio 1975 aveva partecipato, con la Cagol, Moretti e Attilio Casaletti, all’evasione di Renato Curcio, anche lui indagato dalla Procura di Torino, dal carcere di Casale Monferrato. Non basta: il nome di battaglia di Zuffada era Franco. E proprio con una F sarebbe stato identificato nella relazione interna sui fatti della Spiotta, redatta da un brigatista fuggito dopo il conflitto a fuoco dei carabinieri ma a tutt’oggi non ancora identificato.

Zuffada va ad aggiungersi tra gli indagati a Curcio e Lauro Azzolini: di quest’ultimo, altro membro storico delle Br e coinvolto anche nel sequestro Moro, i Ris hanno rilevato ben undici impronte proprio sulla relazione che ricostruisce i fatti della Spiotta. Proprio oggi presso il tribunale di Torino si è tenuta la prima camera di consiglio sulla richiesta di revocare la sentenza di proscioglimento di Azzolini pronunciata dal tribunale di Alessandria il 3 novembre 1987. Una sentenza che è al centro di un vero e proprio giallo. Alla richiesta dei pubblici ministeri Diana de Martino (della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo), Emilio Gatti e Ciro Santoriello, questi ultimi della Procura di Torino, di acquisire la sentenza, il tribunale di Alessandria ha risposto che le ricerche hanno dato esito negativo. La sentenza, infatti, come riporta stamane Il Corriere della Sera, è andata presumibilmente persa nell’archivio del tribunale, danneggiato dall’alluvione che ha colpito Alessandria nel 1994.

Ma proprio durante l’udienza di oggi l’avvocato Davide Steccanella, che difende Azzolini, ha sostenuto che “non potendosi conoscere quali sarebbero state le fonti di prova acquisite in un procedimento conclusosi con provvedimento oggi irrevocabile” sarebbe “impossibile ogni valutazione comparativa con quelle nuove indicate dal richiedente”. Inoltre lo stesso legale, pur precisando che la presenza delle impronte di Azzolini sulla relazione dimostrano solo che lo ha toccato e non che ne sia l’estensore, ha ammesso che, all’epoca, al suo assistito non vennero prese le impronte digitali. E dunque il fatto che le impronte dell’ex brigatista siano state rilevate sui 13 fogli dattiloscritti della relazione interna, acquisita dalla procura di Torino nel fascicolo originale sul caso, è un elemento nuovo, che può portare comunque alla revoca della sentenza del 1987.

L’obiettivo della nuova inchiesta, avviata su impulso dei figli di D’Alfonso, Bruno, assistito dall’avvocato Sergio Favretto, e Cinzia, assistita dall’avvocato Nicola Brigida, è accertare l’identità e il ruolo di un brigatista, sino a oggi mai identificato,
che ha sicuramente partecipato al sequestro Gancia e che dopo la sparatoria si diede alla fuga. Quello stesso brigatista autore della relazione interna trovata dai carabinieri nel covo di via Maderno a Milano il 18 gennaio 1976 e che è al centro della nuova indagine.

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