Iran, il rifiuto del velo ora si cura in clinica

Trattamenti "psicologici" per il no all’hijab. Le giovani: "Saranno le nuove prigioni"

Iran, il rifiuto del velo ora si cura in clinica
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“Curare” la mente delle donne che si rifiutano di indossare l’hijab. È l’ultima frontiera della battaglia per imporre il velo condotta dalla Repubblica islamica dell’Iran ai danni delle sue cittadine, sempre più prigioniere delle restrizioni del regime. La notizia dell’apertura di una “clinica di cura contro la rimozione dell’hijab” è stata annunciata dalla responsabile del Dipartimento per le donne e la famiglia, una donna anche lei, che fa capo all’orwelliano ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio, a sua volta sotto l’autorità diretta del Leader supremo, Ali Khamenei. La clinica offrirà «trattamenti scientifici e psicologici» alle donne contrarie all’obbligo dell’hijab, ha spiegato Mehri Talebi Darestani, esemplare nel suo velo nero integrale.

La mossa del regime non appare affatto casuale. Due settimane fa, hanno fatto il giro del mondo le immagini di Ahoo Daryaei, la studentessa iraniana che per protestare contro l’obbligo del velo si è denudata all’università Islamic Azad di Teheran, per essere poi arrestata e sparire nel nulla. Il suo gesto di ribellione è diventato iconico e lei l’ultimo simbolo della rivolta contro il regime. Dopo che attivisti e organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto con insistenza di conoscere la sua sorte, le autorità iraniane hanno riferito che la giovane è stata sottoposta a cure mediche perché soffrirebbe di un «disturbo psicologico». È il marchio della pazzia affibbiato agli oppositori per sminuire i loro gesti di ribellione e giustificare lunghe sparizioni. L’etichetta di malato psichiatrico è stata spesso usata ai danni di donne e celebrità che si sono mostrate in pubblico a capo scoperto dopo la rivolta del 2022, seguita all’uccisione di Mahsa Amini per un velo indossato male.

Quella linea ora diventa linea di Stato. La “pazzia” è il marchio che il regime vuole imprimere a chi rifiuta le sue regole, a cominciare dalle donne che combattono l’imposizione dell’hijab, consapevoli di quanto quel velo sia diventato il campo di battaglia di una guerra ben più ampia e profonda per i propri diritti. L’ultimo caso è quello di Roshanak Molaei Alishah, 25 anni, arrestata senza che si abbiano più sue notizie dopo aver postato le immagini di un soldato in moto che la molestava e di una colluttazione per difendersi. E delle ultime ore è la morte di Kianoosh Sanjari, dissidente il cui «suicidio» per protesta contro il regime appare sospetto.

Sulle cliniche per curare il rifiuto del velo, intanto, fioccano i commenti indignati dei dissidenti all’estero. «Un’iniziativa vergognosa, un’idea agghiacciante» la definisce Sima Sabet, giornalista iraniana residente nel Regno Unito, che è stata vittima di un tentato omicidio l’anno scorso. L’idea non rispetta le leggi sull’hijab, «non è né islamica, né allineata alla legge iraniana», sostiene l’avvocato iraniano per i diritti umani, Hossein Raeesi, citato dal quotidiano britannico Guardian. Ma le parole più forti sono di una giovane iraniana che parla dietro anonimato: «Non sarà una clinica, sarà una prigione.

Facciamo fatica ad arrivare a fine mese e abbiamo interruzioni di corrente, ma un pezzo di stoffa è ciò di cui questo Stato si preoccupa. Se c’è stato un momento in cui tutti noi possiamo tornare in strada, è adesso, altrimenti ci rinchiuderanno tutti».

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