Raccontare la storia di Assange per scuotere il mondo libero

"Non è stato un atto di spionaggio". La moglie di Assange in difesa del marito ha accolto le domande dei giornalisti intervenuti alla presentazione del libro Il Processo a Julian Assange. Comitati e attivisti non smettono di lottare per la sua liberazione.

Raccontare la storia di Assange per scuotere il mondo libero

Qualcuno paragona l'ignominia mostrata dalle istituzioni complici della cattura e detenzione di Assange a quella che marchiò con disonore tutti coloro vennero coinvolti nell'Affaire Dreyfus. Ma l'attivista australiano che ha vissuto in isolamento per un decennio della sua vita, e sua moglie Stella Moris Assange, intervenuta ieri, 28 aprile, a Roma alla presentazione del libro rivelazione Il processo a Julian Assange (edito in Italia da Fazi Editore), si troverebbero subito in disaccordo. "Julian era un editore". Non era un militare, non era una spia. E la distinzione, almeno secondo chi conosce bene la vicenda, o sta lottando per essa vivendone i traumi sulla propria pelle, è presto fatta.

Tracciare un perimetro per arginare le congetture e concentrare l'attenzione sui fatti, segnare una linea ben marcata che separi la diffusione di informazioni classificate attraverso la piattaforma WikiLeaks dall’atto di spionaggio, sembra essere un punto essenziale per Stella Moris Assange e per il collegio di difesa dell’attivista attualmente detenuto nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, nel Regno Unito. Tanto che alla domanda se si possa guardare in qualche modo al recente caso dei Pentagon Leaks come ad una “continuazione” dell’operato di suo marito e delle sue vecchie fonti, la moglie di Assange, con voce ferma, delicata, evidentemente provata ma decisamente risoluta risponde: “Mio marito era un editore”. Segnando la non trascurabile differenza tra coloro che hanno fornito delle informazioni sensibili e segrete in passato - come il collaboratore del NSA (National Security Agency, ndr) Edward Snowden e l’analista dell’intelligence dell’Esercito americano Bradley Manning - e chi le ha rese note al mondo in virtù di una ricerca forsennata della trasparenza. Mirando ad animare la pubblica opinione. La stessa differenza che intercorrerebbe oggi tra un libero cittadino che diffondesse le informazioni classificate trafugate dall’aviere inquadrato nel dipartimento d’intelligence Jack Teixeira e lo stesso.

Nel caso di Julian Assange invece - e fino a prova contraria - staremmo parlando di “un attacco alla libertà di stampa” che ha dovuto fare appello ad una legge sullo spionaggio del 1917 per trovare giustificazione nella persecuzione di un uomo che ha rinunciato alla sua libertà nel 2012 - quando ha trovato asilo presso l’ambasciata dell’Ecuador di Londra - prima ancora dell’arresto condotto dagli agenti di Scotland Yard, avvenuto l’11 aprile del 2019. Come è noto, se il governo britannico accorderà l'estradizione negli Stati Uniti la pena detentiva di Assange potrebbe ammontare a 175 anni di carcere. In altri termini molto oltre la fine della sua vita.

La persecuzione di Assange, culminata nel suo arresto e nella detenzione in regime di massima sicurezza in quella che viene considerata la “Guantanamo britannica" sarebbe “Un attacco a tutti coloro che vogliono raccontare la verità”, ha ribadito, a più riprese, la moglie di Assange nella sede della Federazione nazionale della stampa di Roma durante la presentazione del libro scritto da Nils Melzer, ex relatore speciale delle Nazioni Unite contro la tortura dal 2016 al 2022 che ha messo da parte ogni dubbio personale sugli eventi che hanno segnato la vita del fondatore di WikiLeaks; messo “a tacere” per aver diffuso centinaia di file classificati dalla CIA e dall’NSA. Le agenzie di spionaggio americane.

Il saggio inchiesta di Melzer - titolare della cattedra di Diritti umani all'Accademia di diritto internazionale umanitario di Ginevra e professore di Diritto internazionale all'Università di Glasgow, già relatore speciale dell'ONU, attualmente titolare del Comitato internazionale della Croce Rossa - vuole rendersi “appello” dirompente e “arma” di mobilitazione per la pubblica opinione che, secondo comitati e attivisti in lotta per la liberazione di Assange, deve conoscere i fatti nella loro interezza ed entità. Con una particolare attenzione all’operato dei governi di Stati Uniti, Regno Unito, Svezia ed Ecuador, e il "Deep State" che spesso sentiamo nominare.

Secondo la giornalista d'inchiesta Stefania Maurizi, che ha collaborato alla pubblicazione delle informative rivelate da WikiLeaks ai tempi, e che del libro in questione ha scritto la prefazione: ”La vita di Julian Assange è appesa a un filo”, mentre “la sua salute è devastata” in seguito ad anni di privazioni, e a causa della tortura psicologica cui è stato sottoposto per essere “eliminato” senza dover giungere ad una reale eliminazione fisica. Opzione che, secondo alcuni membri della sua cerchia più ristretta, era anche stata presa in esame dal governo degli Stati Uniti - benché non sia stata fornita alcuna prova dimostrabile.

Ciò che colpisce della vicenda di Julian Assange, che viene associata allo spionaggio ma vede solo attori dello spionaggio coinvolti in seguito alla diffusione di informazioni delle quali Assange entrò in possesso, è la dimostrazione dell'esistenza di un'interazione tra i diversi governi per inficiare la minaccia rappresentata dalla rivelazione di verità scomode che possono porre in una posizione d'imbarazzo le maggiori potenze occidentali, da sempre impegnate in conflitti giustificati dalle migliori intenzioni in nome della salvaguardia di quella stessa libertà che viene negata al singolo elemento Assange. Colpevole di aver "scelto" di condividere le sue nuove consapevolezze con il mondo. Un mondo che tuttora non sembra completamente preparato a squarciare il velo che lo separa da spiazzanti rivelazioni in grado di minare le più radicate certezze, e che per questo si volta dall'altra parte, lasciando che l'annunciato e tragico epilogo si compia nel silenzio assordante di una cella di massima sicurezza.

Ponendo molti nell'impaccio nella delicata condizione sintetizzata da Bertolt Brecht, il quale asseriva che colui "che non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente".

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