Il patriarca tra i rottami. È un grido verso il cielo

La pietà. Il dolore. Lo sgomento perché quello che è successo è troppo. Cerchiamo un colpevole, ma a volte le cose accadono

Il patriarca tra i rottami. È un grido verso il cielo
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La pietà. Il dolore. Lo sgomento perché quello che è successo è troppo. Cerchiamo un colpevole, ma a volte le cose accadono. Può essere stato un malore e forse il guardrail era vecchio. D'accordo non ci basta, Cerchiamo altro. Altrove.

Alle dieci della sera il patriarca di Venezia e lì, nel luogo della tragedia, fra i rottami, i corpi carbonizzati che solo una manciata di ore prima erano uomini, donne e bambini, le squadre dei vigili del fuoco. Le parole di conforto servono a poco, anche se sono necessarie, quel che urge di più è un senso, ovvero un abbraccio più grande, in una terra desolata. Il patriarca benedice le salme, prega, compie pochi gesti essenziali. Qualcuno forse può pensare che si tratti di un esercizio di spiritualità rarefatta, un supplemento di galateo morale secondo i canoni della tradizione. Ma le cose non stanno proprio così: quello di Francesco Moraglia è un grido al cielo, esattamente come quello di papa Francesco in una Piazza San Pietro deserta ai tempi cupi del Covid. A volte sembra che il cielo si dimentichi della terra, ma duemila anni fa il Cielo è sceso sulla terra per condividere le nostre sventure, le nostre sofferenze e riscattarle, collocarle in un'altra dimensione.

Non ci è risparmiato nulla, nemmeno l'orrore di due piccoli che non ci sono più, ma la fede è proprio questo: il riconoscimento di una presenza più grande che sta in mezzo a noi. Ci consegna un'umanità dilatata e una speranza tenace. Il resto è solo retorica religiosa che non appassiona. «Noi uomini che confidiamo sempre di più nella cultura e nella società della tecnoscienza - spiega Moraglia al Timone - rimaniamo fragili e per questo siamo chiamati a riscoprire il limite, come vera cifra della creaturalità. Non si tratta di avere paura, ma di riscoprire nel nostro quotidiano la gioia di essere creature».

Un discorso che qualcuno giudicherà astratto, ma quella non è una predica, è realismo, fra i detriti accartocciati: la foto tridimensionale di quel che siamo. E poi il patriarca è sotto il cavalcavia e dentro il dramma. Srotola la preghiera verso il Cielo e, soprattutto, testimonia che la speranza può crescere come una pianticella anche dove, secondo i parametri del mondo, il seme non dovrebbe attecchire.

Il disastro resta nelle sue inaccettabili proporzioni, la ricerca delle responsabilità va avanti, ma la vista di quell'uomo vestito di nero che si aggira fra le rovine ci fa pensare che non tutto è finito dove tutto ha avuto fine.

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