Ho assistito alla confessione in Corte d'Assise, davanti ai giudici, ai parenti della vittima e alle televisioni, di Filippo Turetta. Non c'è bisogno qui di scartabellare nella confusione della nostra memoria, per recuperare gli elementi di quel delitto: ci zampillano in testa tutti subito. Due ragazzi di famiglie perbene, gli studi di ingegneria insieme, un filarino che lei, Giulia Cecchettin, di un altro livello, desiderava tagliare ma non voleva che il fidanzato inadeguato soffrisse troppo e così tirava in lungo perché gli entrasse nella dura zucca che lo doveva proprio mollare. Infine lui capisce che è finita ma invece di prendere atto, sfogarsi con un amico, farsi uno shampoo e guardarsi intorno per dimenticare, come a miliardi di tizi è accaduto prima di lui, decide di vendicarsi: le tende un agguato, uccidendola (11 novembre 2023, tra Padova e il Friuli).
La realtà dei fatti, in quei giorni grigi, per un paio d'ore è stata avvolta dalle parole di stupore e disgusto che aiutano a passare senza troppe domande ad altro. Cito, a seconda dello stile dei giornalisti: delitto efferato, crudeltà inaudita, povera figlia, disgraziati i genitori, eccetera. Questo crimine ha avuto per mesi e mesi, fino alla confessione coram populo (traduco il latinorum: davanti al mondo) di venerdì, una particolarità. Era cioè scesa sui coltelli, sul volto fatto a pezzettini della ragazza, la nebbia dell'ideologia: colpa del patriarcato, come no? Con il risultato di sciogliere l'unicità di ogni delitto, di omogeneizzare il mistero della cattiveria sempre vecchia e sempre diversa di Caino e di Otello, nello scomparto delle colpe sociali: il patriarcato.
Poi c'è stato il momento della verità. Il patriarcato è fuggito a gambe levate. Le riprese in primo piano hanno mostrato il volto dell'assassino afflosciato come una caramella molle, l'ascolto delle sue parole titubanti erano lontane centomila chilometri dalla realtà di quello che ha fatto. Parlava
come se stesse seduto su una nuvola fuori dal tempo e dallo spazio. Ma era la sua vera nuvola: quella della stupidità intellettiva e morale. Nessun alone di amore maledetto in combinazione infame con i tremendi algoritmi del patriarcato. Nulla. Però adeguato ai tempi: usa un linguaggio politicamente correttissimo. Nessun gesto volgare tipo buttarsi a terra chiedendo perdono, o dare addosso con epiteti infami a se stesso. Dice di aver detto «bugie», che sono peccati da bambini, non usa menzogna; non batte la testa contro il banco implorando la pietà che Giulia avrebbe avuto per lui; non urla di meritare il capestro degli infami. Sostiene «che potrebbe chiedere scusa ma sarebbe ridicolo di fronte alla grave ingiustizia che ho commesso». Minimizza due volte: dice «scusa», che sarebbe ridicola sì per l'atroce sminuzzamento delle guance bianche come rose e degli occhi imploranti. Non accusa la sua crudeltà, ma l'ingiustizia, come quando la busta paga è bassa o il voto all'esame di chimica non è venticinque ma ventitré. Ma sì, un bel «sorry» e tutti a casa a mangiare la minestrina dopo il severo monito «la prossima volta stai più attento».
Trascrivo altre sue parole (tra domande e risposte se ne sono andate sei ore): «Il piano era rapirla, farla soffrire e poi (attimo di pausa per sbiadire il fatto) toglierle la vita (ancora pausa) e togliermi la mia». Non nomina Giulia (rispetto della privacy), non dice «ucciderla» e «ammazzarmi» (linguaggio violento, fuori dai canoni della tivù dei ragazzi progressisti).
La sua vita è stata tutta nella bambagia, avvolge di bambagia anche la morte, credendo che sia meno morte, meno reale. Il delitto è stato premeditato, dice l'accusa, e lo ammette Filippo: hanno ragione. Ma l'aggettivo è sprecato per tanta miseria, una precisione da travet, che elabora alternativamente omicidi e cruciverba. Il carcere non lo ha reso più lucido e profondo, si è seduto sul pavimento mettendosi un cuscino sotto il sedere della coscienza. Dice che avrebbe voluto ammazzarsi, faceva parte del piano. Ci credeva e si mentiva. Ha cercato
persino su Internet i modi per sfangarla, sfuggendo ai controlli, scappando senza essere beccato, sparpagliando i soldi per strada. Per essere sicuro di riuscire ad ammazzarla, ha nascosto in macchina una collezione di coltelli, ha deciso di coprirle il volto con un sacchetto nero per non far vedere come l'aveva ridotto. Ha cercato di uccidersi con un sacchetto, che è cosa impossibile per un bietolone, nessuno ce la fa senza coraggio, e lo sapeva, eccome no, da bravo ingegnere sa che occorre una forza sovrumana, così come era occlusa per lui la tecnica di tagliarsi con una lama: non un samurai. Avesse avuto un centesimo dell'energia e della voglia di ammazzare che ha esercitato con l'innominata Giulia, in realtà si sarebbe ucciso a casa propria, escogitando un ingoio di cento pilloline mortali e poi buttarsi, al sicuro dalla lavanda gastrica, da un ponte con la macchinetta dono dei suoi cari e tenuta lustra.
Ci vorrebbe un Dostoevskij o esagero un Dante Alighieri per ascoltare la confessione della sua innominata vittima. La cui sola colpa, dopo essersi innamorata una volta del bel faccino e della voce smorta, è stata di non riuscire a sciogliersi dal suo filo di ragno zuccherino tagliandolo via con una parolaccia salutare, ma di restare impaniata nel desiderio di non farlo patire troppo addolcendo l'addio, sbagliando come si fa con gli alcolisti quando si cede all'implorazione di concedergli l'ultima goccia di Fernet.
Nessun mito maledetto fa brillare di tenebra quel povero sangue innocente, e neppure una qualche ideologia torbida di machismi patriarcali offre una confezione decente al delitto del perfetto cretino, il cui pensiero più alto e nobile è stata la ricerca dello scotch su Internet.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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