Abbagli populisti

Ne ha fatto le spese pure Federico Pizzarotti, primo sindaco 5 stelle di capoluogo e primo grillino a dire addio al fondatore Beppe

Abbagli populisti

Ne ha fatto le spese pure Federico Pizzarotti, primo sindaco 5 stelle di capoluogo e primo grillino a dire addio al fondatore Beppe. L'ex sindaco di Parma, dopo tanto trattare, non ha trovato posto nelle liste del terzo polo della coppia Calenda-Renzi, vittima anche lui di uno dei tanti abbagli presi dalla sua prima fede, quella grillino-populista. L'abbaglio porta il nome di una delle grandi battaglie del Movimento, quella che ha ridotto il numero dei parlamentari. Le liste elettorali chiuse ieri hanno dimostrato che anche la madre di tutte le battaglie grilline in realtà è stata una gran menata: alla fine i partiti, a causa della riduzione dei posti, hanno candidato solo i professionisti della politica o chi dopo due o tre legislature lo è diventato, mentre, a parte qualche eccezione, sono rimasti fuori i nomi della cosiddetta società civile. Quelli che una volta erano considerati i fiori all'occhiello.

Questo è il bilancio dell'operazione e i primi a farne le spese sono stati proprio i grillini fatti fuori dalla loro visione ispirata a Torquemada. Come si fa, infatti, a tagliare da una legislatura all'altra un terzo dei membri del Parlamento, senza nessun gradualismo? Gli altri problemi creati da questa concezione manichea verranno a galla dopo il 25 settembre, quando un Parlamento organizzato e strutturato per funzionare con poco meno di mille parlamentari dovrà far fronte al lavoro delle commissioni con i seicento superstiti. O meglio, il Senato ha riformato il proprio regolamento e in parte lo ha adeguato, mentre la Camera, guidata non per nulla da un esponente del populismo grillino, se ne è infischiata e ora saranno guai.

La verità è che la politica non si può fare con gli urli e i conati, non puoi farti guidare dalle viscere ma, come in tutte le cose, devi usare il cervello. Di provvedimenti presi con la «pancia», cercando di conquistare l'attenzione della gente, e che a cose fatte hanno provocato un pentimento quasi generale, è piena la produzione parlamentare di segno populista che, nelle diverse stagioni, ha preso colori diversi. Un'altra sfida al Palazzo, ad esempio, fu l'eliminazione o la riduzione del finanziamento ai partiti. Ebbene, ora è difficile trovare qualcuno che non vorrebbe tornare indietro.

Lo stesso giudizio ora incombe pure sulla riduzione dei parlamentari fatta quasi per caso. C'è chi non se ne è ancora reso conto, ma chi dovrà guidare il governo dopo il 25 settembre lo farà alla cieca. Ad esempio, se i numeri dei ministri e dei sottosegretari (specie se saranno scelti tra gli eletti) sarà quello degli esecutivi precedenti, sarà difficile per la maggioranza avere in Aula i deputati o i senatori necessari per votare la fiducia. Più che politico, è un problema strutturale, si può dire matematico. Tant'è che c'è chi immagina siano necessarie subito delle riforme per evitare contrattempi. Addirittura lo teorizza un costituzionalista del Pd che, visti i pronostici elettorali, avrebbe tutti i motivi per negarlo. «Qui la questione principale osserva Stefano Ceccanti è quella di far girare la macchina. Con i nuovi numeri del Parlamento le fiducie dovrebbero essere votate in seduta comune dalle due Camere e allo stesso modo i decreti. Senza queste modifiche avranno problemi i governi di qualsiasi segno».

E torniamo all'origine di tutti mali: le riforme non possono essere fatte con i piedi. È la parabola, purtroppo, di una legislatura in cui per buona parte hanno regnato i 5 stelle.

Ci vuole un minimo di competenza e di serietà. E i primi che dovrebbero rendersi conto nel segreto dell'urna che non si vota, appunto, con le viscere ma con il cervello, dovrebbero essere proprio gli elettori. Anche perché sono sempre i primi a pagare.

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