Il pronunciamento dei giudici della Corte di Assise di Appello di Lecce che annulla il grande processo sull'inquinamento dell'Ilva a Taranto potrebbe riscrivere la storia dell'acciaio in Italia degli ultimi 12 anni. Un «giudice a Berlino», come scriveva Bertolt Brecht, forse si è trovato, ma il ritardo è tale che difficilmente la sentenza potrà recuperare i danni inflitti ad una delle più importanti industrie italiane.
Per i magistrati, che hanno annullato un paio di centinaia di anni di carcere, a Taranto non vi era un clima sufficientemente sereno per giudicare i fatti relativi al più grande stabilimento siderurgico di Europa, che oggi langue spiaggiato sulle rive del Mediterraneo, insieme al complesso industriale di Genova, privato a sua volta del materiale grezzo da lavorare.
Come tutte le storie giudiziarie del nostro Paese, per ricostruire quella di Ilva e della inchiesta «ambiente svenduto», come è stata definita, occorre scavare nel passato remoto.
Tra il 2012 e il 2013 infatti una serie di indagini portarono al sostanziale smantellamento del gruppo Riva, con arresti all'interno della famiglia che guidava l'azienda, allora produttiva e in attivo, manager, confische e congelamento di beni. E ovviamente anche politici e funzionari finirono nei guai, accusati di eccessiva timidezza nei controlli sull'inquinamento.
Ora, una dozzina di anni dopo, un tribunale getta almeno un'ombra su quella storia. Se la storia fosse riscritta in questo senso, la magistratura avrebbe dimostrato la propria capacità di emendare se stessa, sia pure in tempi talmente lunghi da risultare un ravvedimento assai tardivo e in questo caso incapace di recuperare i danni ormai inflitti.
Il tema vero però, anche e soprattutto in questo caso, non riguarda il sistema giudiziario, ma ancora una volta quello politico. Se infatti è possibile che i giudici tarantini dodici anni or sono sbagliarono la propria diagnosi, è invece certo fin da allora che lo fecero con gli strumenti affidati loro dal Parlamento, che ha trasformato ogni tema ambientale in un tema penale, e che tutto è avvenuto sotto lo sguardo di una politica che definire timida è un eufemismo, meglio dire codarda e addirittura connivente rispetto agli errori.
Sull'onda dell'inchiesta infatti, nel giugno del 2013, il Governo decise il commissariamento della acciaieria, sostanzialmente espropriata alla legittima proprietà. Cavalcando il lavoro dei giudici la politica diede allora il via a quella stagione moralistico-giustizialista che avrebbe visto il culmine nelle piazze del Movimento Cinque Stelle di lì a pochi mesi, ma che contaminò moltissimi partiti e che, anche oggi, non ha ancora trovato un credibile antidoto. Unica voce a levarsi contro la statalizzazione fu quella di Antonio Gozzi, presidente di Federacciai: parlando da industriale di un settore che ben conosce preconizzava infatti il disastro che poi seguì.
A commissariare Ilva fu un Governo sostanzialmente laburista, a guida Pd, quello di Enrico Letta. Il ministro dell'Ambiente era Andrea Orlando, che firmò il decreto. Un esecutivo di sinistra, che dunque avrebbe dovuto avere particolare sensibilità per l'occupazione, e un ministro esponente della sinistra «operaista» almeno a parole, preferirono gettarsi con la bava alla bocca alla ricerca di un presunto colpevole, anziché attivarsi per trovare una soluzione che salvasse il diritto di proprietà e al tempo stesso l'acciaio italiano con le sue eccellenze e i suoi lavoratori.
Insomma preferirono cavalcare l'onda giudiziaria anziché mitigarne gli effetti distruttivi sull'apparato produttivo.
Da allora tutta la politica è stata risucchiata da un gorgo da lei stessa creato che ha impedito ogni soluzione. Leggi ambientali così concepite da immaginare addirittura uno «scudo penale» per gli amministratori di Ilva, perché nessuno avrebbe accettato quell'incarico senza una protezione rispetto alle norme vigenti e la loro interpretazione da parte delle Procure. Uno «scudo penale» che i grillini impedirono, cancellando così ogni possibile governance efficace dell'azienda e ogni chance di ripresa della attività produttiva.
Così, mentre ancora oggi la politica vagheggia improbabili trasformazioni ecologiche pagate dalle tasche dei contribuenti e il Governo Meloni cerca di limitare i danni di quasi tre lustri di scelte inconcludenti, tornando finalmente a cercare, dopo la fuga di Mittal, un socio industriale che riporti Ilva finalmente nelle mani dei privati, i giudici d'appello ci spiegano che, forse, tutta questa storia è viziata fin dall'inizio da un pregiudizio, che ha distrutto vite e benessere.
La partita giudiziaria ora si giocherà, ricominciando da capo, nel campo neutro di Potenza.
Vedremo se la politica resterà a guardare altri 12 anni, o deciderà di fare tesoro di questa esperienza modificando leggi e procedure che bloccano la crescita e lo sviluppo del nostro Paese. Sperando che il fischio di inizio di questa nuova partita non coincida con il fischio finale della partita dell'acciaio in Italia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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