E adesso ci sarà la corsa a riabilitarlo. E adesso che non è più un grande vecchio un po' rompicoglioni, ma il più grande chef italiano di tutti i tempi. Per distacco.
La grandezza di Gualtiero Marchesi morto ieri ad anni quasi ottantotto sta in questo: che ha rivoluzionato l'alta cucina italiana e che poi si è sfilato da questa rivoluzione, in cui non si riconosceva più, di cui annusava il vecchiume. Ha inventato la gastronomia e poi l'ha profanata ed entrambe le cose avvennero in silenzio, la prima perché con le rivoluzioni va così, che ci vuole del tempo per storicizzarle; e la seconda perché rompere il giocattolo non faceva (e non fa) comodo a nessuno.
Gualtiero Marchesi (sempre evviva) lascia una cultura gastronomica diversa, che poi forse sarebbe accaduto lo stesso, ma intanto fu lui il primo a combattere, secondo i dettami della nouvelle cuisine, la tendenza alle stracotture, all'uso di prodotti mischiatutto come le panne, la poca cura alla qualità e alla provenienza dei prodotti. Fu il primo a dare all'Italia qualcosa di diverso dalla cucina familiare del «lo fa meglio mia zia», dalla cucina regionale con i suoi dialettismi gustosi ma opprimenti, da quella internazionale della vuota liturgia, inventando la nuova cucina italiana. Fu il primo a dare importanza al design del piatto, a capire che si poteva essere belli e buoni, fu il primo a mettere in bella copia i piatti con grafismi spesso liquidati con spocchia incolta. Fu il primo a portare in Italia le tre stelle Michelin e poi, un paio di decenni dopo, a rispedire al mittente non solo le agognate stelle ma qualsiasi giudizio espresso in simboli, in numeri in algoritmi. «Voglio solo commenti, non voti», disse. E amen.
Gualtiero nacque nel 1930 da una famiglia di ristoratori pavesi, che gli dettero le chiavi di accesso alle cucine. Poi andò a farsi le ossa in Svizzera, frequentando la scuola alberghiera di Lucerna, e fu anche a Parigi, dove fu lambito dal vento innovatore della nouvelle cuisine, che negli anni Settanta, grazie al furore iconoclasta dei critici Henri Gault e Christian Millau, fece diventare la cucina qualcosa che prima non era. Nel 1977 sbarcò a Milano, la città che da quel momento fu il teatro della sua gloria e delle sue cadute, e aprì un ristorante in via Bonvesin de la Riva dove iniziò a mettere in pratica la grammatica e la sintassi appresa oltralpe. E qualcuno iniziò ad accorgersi di quello chef nemmeno giovanissimo che iniziava a épater les bourgeois con gesti scioccanti. Mettere una foglia d'oro nel risotto, squadernare un raviolo fino ad allora rimasto chiuso come un'alcova, citare in un piatto di pesce Jackson Pollock, giocare con cromatismi estremi, tutto rosso pompeiano, tutto nero lucido. Roba mai vista. Fu per la tavola quello che era stato Le Corbusier per l'architettura e Lucio Fontana per l'arte, quello che nelle stesse stagioni era Giorgio Armani per la moda: che quello che ora è normale allora era perturbante, destabilizzante.
Fu una vertigine: prima stella, poi la seconda, nel 1985 la terza e l'Italia scoprì che anche da noi si poteva uscire dal vernacolo. Divenne commendatore della Repubblica, fu il primo cuoco artificiale. Nel frattempo allevava torme di giovani virgulti: Davide Oldani, Andrea Berton, Pietro Leeman, Ernest Knam, Paolo Lopriore, Enrico Crippa, Paola Budel. Nel 1993 lasciò Milano e raggiunse Erbusco, in Franciacorta, dove aprì un ristorante nel resort L'Albereta di Vittorio Moretti. Qualche anno dopo perse la terza stella ma non sembrò dolersene. Fu però il primo passo della controriforma. Marchesi prese a criticare il sistema che lui stesso aveva contribuito a creare. Dal 2009 la guida Michelin lo ignorò, aderendo al suo appello alle guide: non giudicatemi coi punteggi, io a questo gioco al massacro non ci sto.
Intanto Marchesi era tornato a Milano aprendo nel salotto della città, in piazza della Scala, il Marchesino. La trasformazione da rivoluzionario a grande vecchio era ultimata. Considerato una sorta di chef hors catégorie, Marchesi iniziò la fase cattivista, quella in cui si permetteva di dire cose che nessuno, nel grande circo della gastronomia italiana, voleva o poteva dire. Di Massimo Bottura: «I miei cuochi ci sono andati, e a loro non è piaciuto». Di Carlo Cracco: «È bravo ma ho perso i contatti. È un allievo, non un discepolo». Di Antonino Cannavacciuolo: «Dice di aver lavorato con me ma non mi risulta».
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