Che l'atroce caso di Civitanova Marche avrebbe dato la stura a un'avvilente strumentalizzazione elettorale sulla presunta recrudescenza del razzismo in Italia, è stato chiaro fin da subito, quando Corrado Formigli ha polemicamente chiesto a Meloni e Salvini di condannare l'omicidio, accusando così l'intera destra di esserne il «mandante morale». Sono riflessi pavloviani, meccanismi condizionati di demonizzazione del «nemico». Ma dato che l'intellighenzia progressista sa sempre stupire, è riuscita ad alzare l'asticella. E ad accostare la morte di Alika Ogorchukwu a quella di George Floyd, l'afroamericano ucciso da un poliziotto negli Stati Uniti nel 2020.
L'articolo di Gianni Riotta apparso ieri su Repubblica muove dall'immagine di Ferlazzo che schiaccia a terra l'ambulante e lo soffoca proprio come fece l'agente Derek Michael Chauvin. Le reali similitudini si fermerebbero qui, invece Riotta parte per la tangente di una narrazione distopica: parla di «raptus razzista», è sicuro che «Ferlazzo non colpirebbe i concittadini bianchi che lo scuotessero» e fa appello all'Italia che nelle urne dovrebbe reagire al suo destino di violenza e discriminazione proprio come il «Black Lives Matter» reagì al caso Floyd.
Da dove iniziare a smontare un accostamento tanto assurdo? Forse dal fatto che già sabato gli inquirenti hanno scartato la matrice razziale del gesto, dettaglio su cui sapientemente si glissa nell'articolo. O dal fatto che il caso Floyd coinvolgeva la polizia, quindi lo Stato, mentre qui il colpevole è un privato cittadino pericoloso e già in cura per problemi psichiatrici e di aggressività, quindi al massimo lo Stato non ha vigilato. Oppure si può iniziare dalla statistica: che in barba agli allarmismi colloca l'Italia - quella dominata da «violenza, disprezzo, razzismo, indifferenza e ignoranza» raccontata da Riotta - al 157° posto nel mondo per tasso di omicidi. Meglio in Europa solo Norvegia e Slovenia, mentre gli Usa sono al 64° posto, peggio pure del Kenya.
Dato che Riotta conosce la realtà statunitense molto meglio di noi, tutto questo lo sa benissimo da sé. Così come sa che il caso Alika - come quello del tassista (bianco) ucciso per aver investito un cane, del vicino (bianco) ucciso per una grigliata, dell'anziano (bianco) ucciso per una sigaretta - testimoniano non il razzismo della nostra società, ma una sua regressione a uno stato bestiale in cui la vita perde ogni valore, forse perché la legge sarà uguale per tutti, ma la pena non è mai certa per nessuno. Parlare del «Floyd italiano» è dunque una provocazione tanto zoppicante dal punto di vista razionale quanto efficace da quello strategico. Da decenni la sinistra importa in Italia ogni battaglia, mito, tendenza, fenomeno che avvenga fuori dai nostri confini, da Chiasso a Timbuctu, dagli slogan di Obama al look di Zapatero. Se ogni emergenza alloctona - i nazisti dell'Illinois, la deforestazione in Brasile, la persecuzione dei giornalisti in Russia... - viene raccontata come potenzialmente infestante anche da noi, i fantasmi da agitare e i peccati universali da scaricare sugli avversari politici si moltiplicano.
E di paradosso in paradosso, se il caso Alika ricorda il
caso Floyd, l'incredibile, sfacciata colpevolizzazione di tutta la destra per qualsiasi «brutto clima» che si venga a creare, ricorda il caso Dreyfus. Una sciocchezza sesquipedale, ma fino al 25 settembre pare sia di moda...
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