America, dopo il voto arriva il caos

Ritardi e contestazioni, le elezioni rischiano di finire in tribunale

America, dopo il voto arriva il caos

La democrazia americana si fonda su una pietra d'angolo: chi perde riconosce la sconfitta. Non c'è il pareggio. Non esiste lo stallo. Non puoi fare l'ago della bilancia con il 10 per cento dei consensi. Il voto è il momento della divisione, ma poi si accetta il verdetto. È il segreto degli Stati Uniti d'America. È scritto nel loro motto: pluribus in unum.

Cosa accade se i due candidati alla Casa Bianca si mettono a rivendicare, a votazioni ancora aperte, di aver vinto? È quello che sta succedendo e non porta a nulla di buono. Il motto, per prima cosa, rischia di andarsene a ramengo. Gli uni non riconoscono gli altri. Il vincitore è illegittimo e il perdente non solo non si rassegna, ma va al contrattacco. Si potrebbe aprire una stagione di ricorsi giudiziari. Quando questo accade la democrazia è moribonda.

L'ultima volta che un presidente è stato ripudiato dagli sconfitti si chiamava Abraham Lincoln. Era il 6 novembre 1860 e da lì a poco sarebbe scoppiata la guerra civile, nord contro sud, blu contro grigi. Il motivo ideologico era l'abolizione della schiavitù, sotto c'era tanto altro: due mondi diventati incompatibili. È una cicatrice ancora aperta. Le condizioni ora sono diverse. Non ci sono Stati che rivendicano il diritto alla secessione, ma ci sono comunque due e più americhe che non si riconoscono. La vecchia democrazia nata da una rivolta coloniale non se lo può permettere, neppure adesso che alle spalle ha un secolo da impero.

Dicono che la frenesia di Trump e di Biden sia il segno di questi tempi dove tutto è troppo veloce. Si sono messi a parlare su twitter come due comari pettegole. È la maledizione dei social. È lì il virus. Il mezzo diventa il messaggio e corrompe il buon senso. Può darsi. Solo che così è troppo facile.

È un alibi per non riconoscere la vera malattia. Non è il mezzo di comunicazione il demone di questa storia. Il demone è più antico. È guardare all'avversario politico come un nemico. Biden e Trump si sono incamminati su questo confine e con loro anche i due grandi partiti che hanno alle spalle: democratici e repubblicani. Tutto questo è successo non per i social media, ma per le idee che i due sfidanti incarnano.

I sostenitori di Biden considerano «sporchi» i voti di Trump. È indegno, senza legittimità: brutto, sporco e cattivo. È una democrazia senza «popolo».

I seguaci di Trump vedono nei voti di Biden mistificazioni, privilegi, complotti e soprattutto un conformismo da «dittatura culturale». È una democrazia senza élites.

È di fatto la rottura di un patto sociale. Non c'è più nulla tra l'una e l'altra posizione. Non c'è la zona grigia che ammortizzava il conflitto tra due posizioni che da sempre sono state inconciliabili. C'è solo il contrasto tra «gente comune» e «filosofi». È come se all'improvviso due tipi ideali, che esistono solo come stereotipi, fossero diventati reali. La piazza politica che mette in scena uno spettacolo di pupi.

Queste idee anno dopo anno stanno corrodendo la sacralità della democrazia. Non è più, con la libertà, il valore fondante. È qualcosa di marginale, che può essere messa da parte per ragioni superiori. Non è una crisi solo statunitense. È un sentimento che attraversa tutto l'Occidente. Sono i segni del tramonto di una civiltà. Li stiamo vivendo, con una certa incoscienza, senza neppure tante recriminazioni.

Non c'è neppure tanto da stupirsi, perché in fondo la liberal-democrazia è un'anomalia, un imprevisto, nella storia dell'umanità. È fragile. Lo è stata sempre. Non è colpa dei social. È solo disamore, quello di due tribù verso la democrazia. Il resto è silenzio.

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