Con Massimo Troisi è stata “un grande incontro d’amore” perché “l’amicizia è come l’amore quando ci si vuole bene o ci si ama: c’è un trasporto totale, ridevamo tanto, bastava che ci guardavamo e qualsiasi cosa accadeva era una scintilla per far nascere qualcosa”. In piena campagna elettorale per i ballottaggi, con le polemiche ancora fresche sulle parole dette a proposito della Costituzione, in platea un ministro (Dario Franceschini, qualche fischio per lui) e un governatore (Nicola Zingaretti) Roberto Benigni dal palco di Trastevere lascia stare tutto, le amministrative, il referendum, tutta la politica e si concentra sul suo “Pulcinella”, sul senso della comicità, sulla lezione dei grandi registi, che insegnano a “guardare il mondo”, che “mi hanno insegnato a guardare un volto, a capire come si nota un’espressione”.
Parla di Totò e di quella sua faccia “da angelo pazzo” da “bambino centenario” dietro alla quale “c’erano tutti i morti di fame di Napoli”, perché “se non c’è la morte, se non c’è il dolore, neanche la comicità funziona”. Incanta davvero Benigni quando parla della dolcezza del suo incontro con Troisi, della “bellezza e della difficoltà” di fare cinema, del cinema come “sogno”, perché quando “il buio va giù e inizia il film è come quando chiudiamo gli occhi prima di addormentarci” e prendono il sopravvento “l’inconscio, i sogni”. Quando si guarda un film “ci fissa l’occhio dell’arte”. E per lui ieri a piazza San Cosimato a Trastevere anche il servizio d’ordine ha infranto ogni regola, lasciando che il pubblico occupasse ogni angolo della piazza, con gente che si è portata le sedie da casa e che ha ascoltato seduta a terra, sotto lo sguardo di un visibile controllo di polizia con uomini e mezzi, che temeva contestazioni qualora il Piccolo diavolo avesse attaccato a parlare di Costituzione.
Invece no, Benigni ieri a Trastevere, invitato dai “ragazzi del cinema America” che hanno avuto in assegnazione con bando pubblico la Sala Troisi proprio nel quartiere trasteverino, è tornato al cinema e ha dedicato tutto al suo amico Massimo nel giorno della proiezione di Non ci resta che piangere, il film del 1984 che lanciò la coppia Benigni-Troisi, e che avrebbe dovuto “avere un seguito”, ricorda proprio Benigni: “Si chiude con Leonardo che fa trentatré trentatré e trentatré, e rimane aperto”, e con i protagonisti che in effetti rimangono nell’anno 1492 senza tornare più alla realtà.
E’ il film visto dieci e venti volte da tutte le generazioni nate prima del 1980, ma ieri tutto il quartiere si è mobilitato per la proiezione, nell’entusiasmo di Benigni sul lavoro dei “ventidue ragazzi del Cinema America”, anzi “ventitré”, si è unito a loro, che facendo rivivere una sala “stanno cercando di aprire le porte del sogno perché solo quello abbiamo a consolarci”.
“Se ci fosse Massimo sarebbe felice per questa serata. Da qualche parte in questo momento so che è presente”, ha detto il regista de La vita è bella dal palco. “Avevamo l’età dei ragazzi del Cinema America – ha poi ricordato - neanche trent’anni. Abbiamo deciso di fare qualcosa insieme, di condividere l’allegria perla vita, la spensieratezza, gettandoci nel vuoto di un arte difficilissima come quella cinematografica. Alcuni passaggi del film sono diventati proverbiali, un piccolo cult”, ha iniziato a ridere accompagnato dall’applauso del pubblico. “E abbiamo deciso di far convergere tutto questo amore e questa bellezza in un film insieme”. Un film la cui sceneggiatura, ha rivelato Benigni, è stata scritta e riscritta, “cinque e sei volte”, non se ne riusciva a venire a capo. Ma poi ne è venuto fuori una storia “di evasione, di purezza, di allegria”. Un film di vero divertimento anche per gli attori: “Ci sono alcuni passaggi in cui ci siamo dovuti fermare, almeno tre volte, perché non riuscivamo a recitare per il ridere, la troupe stessa. Quella famosa: Chi siete, dove andate un fiorino! Non riuscivamo a girarla perché sia la troupe che gli attori ridevano. Delle sciocchezze ma era la brillantezza dell’allegria”. Un'altra “quando facevamo i cavalli, Saveria e Mario, se lo notate, adesso anch’io me la voglio rivedere, in quel momento abbiamo dovuto tagliare perché stavamo ridendo continuamente insieme alla troupe che ci istigava al ridere”. E poi un’altra entrata nel vocabolario comune: “Ricordati che devi morire. Sì, mo’ me lo segno. C’erano momenti in cui proprio non riuscivamo a girare”. Questa brillantezza e questa allegria erano date proprio “dall’incontro d’amore”. Una vita vissuta in simbiosi in quel periodo: “Con Massimo dormivamo anche insieme”. E il copione si è creato proprio dall’incontro, “perché lui era lui e io ero io”. Anche la regia si è costruita in un continuo scambio di caratteri e di caratteristiche: “Quando c’è la macchina fossa la regia è sua, quando si muove è la mia”. E nemmeno alla fine Benigni si è fatto tentare dai dibattiti politici, né ha risposto a Dario Fo e alle sue critiche. Ha concluso sempre con una forma d’arte, con una poesia, quella dedicata all’amico Massimo e che raramente era tornato in questi anni a recitare.
Stare con lui era “come parlare con il Vesuvio”: “Intelligente, generoso, scaltro, per lui non vale il detto che è del Papa, morto un Troisi non se ne fa un altro. Morto Troisi muore quella bella serena antica dolce Tarantella. Ciò che Moravia disse per il Poeta io lo ridico per un Pulcinella”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.