Fino a quando non sarà accertato che Domenico Arcuri, già commissario straordinario per l'emergenza Covid, si è messo in tasca dei soldi (ipotesi per ora non solo non accertata ma anzi esplicitamente esclusa dagli inquirenti), sarebbe saggio guardare agli sviluppi delle indagini della Procura di Roma sulle mascherine cinesi con lo stesso distacco etico che meriterebbe l'intera categoria cui questo fascicolo giudiziario appartiene. Ovvero le inchieste del day after, le incursioni a bocce ferme in decisioni assunte mentre piovevano le bombe. Se reati sono stati commessi vanno perseguiti, e non v'è dubbio che lo saranno. Ma il giudizio morale e politico non potrà mai mettere sullo stesso piano il pasticcione e lo squalo, chi si affanna a fronteggiare l'emergenza e chi pensa a sfruttarla per arricchirsi.
Dagli uffici tranquilli di una Procura della Repubblica è gioco facile misurare con l'unico metro del codice penale, a molti mesi di distanza dagli eventi, decisioni assunte con un Paese nel panico, attraversato da cortei di bare e con gli ospizi trasformati in lazzaretti. Di decisioni sbagliate ce ne sono state a bizzeffe, e Arcuri passerà alla storia - a braccetto con la ministra Azzolina - per la grottesca vicenda dei banchi a rotelle. Ma metterlo oggi al muro per avere comprato a caro prezzo mascherine che andavano letteralmente a ruba in tutto l'Occidente, e che erano indispensabili anche per consentire a medici e infermieri di scendere ogni mattina nella trincea dei reparti Covid, sarebbe ingeneroso e protervo. Non si può, fino a prova contraria, metterlo sullo stesso piano dei figuri che di fronte a una nazione in ginocchio hanno accumulato patrimoni immani.
Non si tratta di dire che i mezzi usati sono giustificati dal fine. Si tratta di ricordare che in un Paese da sempre votato all'emergenza fasulla, con le decisioni rinviate all'infinito con lo scopo preciso di dribblare i controlli, il Covid è stato l'emergenza più autentica e imprevedibile del secolo. E che sarebbe ingeneroso non applicare a chi si trovò in prima fila le attenuanti morali. Già in passato, e di fronte a urgenze assai meno tragiche, le colpe sono state perdonate o attutite in nome dell'emergenza: si pensi all'onore delle armi reso al sindaco di Milano dai giudici che lo condannarono per le disinvolture commesse in Expo, anche lì in nome della corsa contro il tempo; e di esempi se ne potrebbero fare tanti altri. Né si può dimenticare che chi in questa tempesta ha avuto l'onere di decidere ha dovuto farlo sulla base di dati scientifici, di pareri di esperti, di analisi di luminari talmente contraddittori da risultare inservibili.
Nessuno invoca per gli amministratori pubblici investiti dall'emergenza uno scudo penale come quello annunciato da Draghi per i medici che inietteranno i vaccini. Però non si può dimenticare che Mimmo Arcuri ci mise la faccia, ogni giorno, davanti agli italiani investiti dal ciclone. Decise e sbagliò. Ma nessuno, proprio nessuno, avrebbe voluto essere al suo posto.
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