Caro papi ti scrivo (sui social). In famiglia ci si parla per finta

Caro papi ti scrivo (sui social). In famiglia ci si parla per finta

È una di quelle notizie che prima muovono al riso, poi allo sgomento. Secondo un'indagine Doxa il 92 per cento dei figli e il 95 per cento dei genitori usa Facebook non soltanto per divertirsi con gli amici (o curiosare nelle loro vicende), ma anche per coltivare le relazioni all'interno della cerchia familiare. Attenzione, le percentuali vanno prese con le pinze, perché l'indagine di mercato è stata commissionata proprio da Facebook, cioè da un'azienda non proprio di specchiata trasparenza e certamente interessata a divulgare l'idea che usare le proprie pagine è cosa bella, sana, fruttuosa e buona.

Il riso amaro viene all'immagine, degna di Checco Zalone, di una famigliola che a tavola, invece di parlare, chatta e si scambia commenti e mi piace, occhi e dita fissi sul cellulare. Ci saranno anche questi casi umani (di disperante umanità), ma a parte quelli non sembra un'attività così malvagia da sdegnarsi. In ogni famiglia dabbene ci si pone la domanda epocale su se e quando e come i figli possano usare i social e, dunque, su come interagire con loro sul web. (Dante Alighieri e la Crusca mi perdonino, è in casi come questi che ci si rende conto di come sia impossibile comunicare molti concetti senza ricorrere all'imbarbarimento e all'imbastardimento dell'italiano: una lingua nobilissima i cui parlanti non hanno avuto la forza causa debolezza e insipienza dello Stato di imporre traduzioni per ogni termine straniero, come si fa in lingue altrettanto antiche e nobili, il francese e lo spagnolo). Il problema vero è, dunque, come usare nuove tecnologie che cambiano il modo di comunicare, ovvero di vivere.

È un problema ancora più delicato di quello, spinosissimo, se concedere o no l'uso del motorino a 14 anni. Da una parte ci sono il pericolo fisico e la paura, ovvia, in ogni genitore. Dall'altra, la costrizione odiosa di forzare i figli alla rinuncia della rapidità e dell'indipendenza: i ragazzi, giustamente, vedono in quello strumento un simbolo della stessa libertà. Forzare gli adolescenti a rinunciare a Facebook, Twitter, Instagram sarebbe come escluderli da gran parte della vita sociale dell'epoca in cui vivranno, ovvero farne degli isolati, se non degli asociali. (Non a caso, badate, le richieste di motorino a 14 anni e di patente a 18 sono in nettissimo calo, perché si sente meno la necessità di spostarsi fisicamente, e questo non è un bene)

C'è da domandarsi, piuttosto, se sia un bene che le mamme e i babbi partecipino alle pagine internet dei figli, essendo raro il caso inverso. Secondo me sì, visto che quelle pagine rappresentano ormai il modo per comunicare idee, emozioni, notizie con una cerchia più vasta di quella che si può riunire in un salotto. Perché mai i miei figli non dovrebbero poter entrare nel mio grande salotto, e io non dovrei poter entrare nel loro? Occorre, semplicemente, farlo con il garbo e la discrezione che si usa frequentando un salotto altrui. E, soprattutto, sapendo che, come in ogni salotto, anche in quello dei nostri amici e dei nostri familiari vige l'antico principio della Dissimulazione honesta di Torquato Accetto. Il fine letterato del Seicento napoletano (trovate l'interessantissimo libro nella Bur, a meno di 10 euro) insegnò ai suoi contemporanei l'arte dell'indispensabile grado di ipocrisia nei rapporti sociali, oltre a quella deprecabile di essere «furbo». Insomma, come essere accomodanti e non invadenti.

Ma occorre sapere e ammettere, infine, che ognuno avrà le proprie pagine e i propri contatti segreti, inviolabili dai familiari. Perché, se ci si vuole davvero bene, si ha rispetto della privatezza altrui. (Vuoi mettere quant'è più bello dell'orribile praivasi?).

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