Caso Bija, il trafficante nel 2017 non visita solo il Cara di Mineo

Emergono nuovi tasselli sul percorso e sugli incontri in Sicilia del trafficante di uomini libico. Presentata un'interpellanza alla Camera

Caso Bija, il trafficante nel 2017 non visita solo il Cara di Mineo

Non accennano a placarsi le polemiche in merito la visita del trafficante di esseri umani conosciuto come Bija presso il Cara di Mineo, avvenuta l’11 maggio 2017.

La notizia viene riportata per la prima volta su Avvenire questo venerdì, oggi sul quotidiano dei vescovi italiani l’inchiesta continua e svela come, quello del maggio 2017, non è affatto un caso isolato.

Al contrario, non solo Bija visita altri centri in Sicilia dopo quello di Mineo, ma uomini legati all’uomo forte di Zawiya entrano in Italia più volte nel corso delle settimane successive.

Nello Scavo, autore del reportage di Avvenire, scrive che fonti vicine all’allora governo Gentiloni, in carica da pochi mesi, dichiarano che a volere l’incontro tenuto a Mineo sono funzionari dell’Oim, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di migranti. Sempre su Avvenire però, viene riportata la versione di alcuni esponenti dell’Onu, che invece dichiarano il contrario e cioè che l’iniziativa è del governo italiano dell’epoca.

Certo è che Bija non è l’unico trafficante di esseri umani arrivato in Italia in quel periodo. Altri suoi uomini avrebbero composto le delegazioni libiche nell’ambito dei contatti avviati tra Roma e Tripoli per provare ad affrontare la questione migratoria. In quel momento la pressione relativa agli sbarchi lungo le nostre coste appare molto forte: tra quel mese di maggio ed il successivo di giugno, sbarcano complessivamente quasi 50.000 migranti, un’enormità se si pensa che nell’intero 2018 ne approdano nel nostro paese 21.119.

La strategia italiana dunque, coordinata dall’allora ministro dell’interno Marco Minniti, è quella di avviare un dialogo con la Libia e dunque con l’unico governo riconosciuto dall’Italia, ossia l’esecutivo guidato da Al Sarraj. È in questo contesto che maturano gli incontri siciliani di Bija e dei suoi uomini: non solo a Mineo, anche a Pozzallo e forse in un’altra struttura siciliana. Lui si presenta sull’isola come rappresentante della Guardia Costiera libica, prende visione del “modello Mineo” ed assieme alla sua delegazione chiede di costruire, con fondi italiani ed europei, simili strutture anche in Libia.

Anche i suoi uomini, facenti parte della sua tribù di Zawiya, arrivano in Italia con tanto di visto in quanto componenti della delegazione di Tripoli. Nomi che oggi risultano inseriti in alcuni procedimenti del tribunale internazionale de L’Aja. Proprio la corte internazionale, come spiega ancora Avvenire, acquisisce anche alcuni rapporti dell’Onu secondo cui le milizie di Bija avrebbero ricevuto fondi e mezzi dall’Italia, beneficiando inoltre del programma di addestramento previsto dalla missione Eunavfor Med, meglio nota come missione Sophia.

Questo spiegherebbe perché, nel giro di pochi mesi, i trafficanti iniziano a vestire i pani di controllori presentandosi in Italia come rappresentanti della Guardia Costiera libica. In poche parole, milizie che prima gestiscono il traffico di esseri umani vengono attratte dalla possibilità di ricevere soldi e mezzi.

Un qualcosa che comunque non suona come una novità: già nel 2017, all’indomani dell’accordo tra Italia e Libia sull’immigrazione raggiunto nell’agosto di quell’anno (pochi mesi dopo la visita incriminata di Bija), un reportage della Reuters svela come le milizie accusate di gestire il traffico di esseri umani sono le prime a fermare adesso i migranti. In quel caso però, il dito viene puntato soprattutto sui gruppi di Sabratha.

Ma, a questo punto, adesso è lecito pensare che le stesse considerazioni è opportuno farle anche per il gruppo di Zawiya e per il boss Bija.

Di certo, in base anche al racconto di Avvenire, investigatori italiani e delle Nazioni Unite sono pronti a fare luce su quel periodo storico ed accertare cosa è realmente avvenuto tra le due sponde del Mediterraneo.

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