Complotto nel Pd per far fuori Renzi

Possibile frana in autunno col pretesto della legge elettorale. Ecco il piano di chi lavora a "un altri Pd"

Complotto nel Pd per far fuori Renzi

Il sogno, l'ambizione o l'illusione dell'altro Pd, quello che non sopporta Matteo Renzi, lo racconta in uno dei saloni del Senato, Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria del Senato. «Mettiamo il caso che - predice con il tono dell'oracolo - alla fine di settembre o primi di ottobre, qualcuno avanzasse in Parlamento l'idea di un proporzionale con un premio di coalizione e, di fronte al rifiuto di Renzi, cominciassero a tirarsi fuori dal Pd i numi tutelari: prima Prodi, poi Letta e, magari, pure Napolitano, cioè gente che ha un certo seguito nell'immaginario della sinistra... Beh per Renzi sarebbero grossi guai».

Altra scena. Mercoledì sera in un ristorante del quartiere romano di Prati, il Poetto. In una sala c'è un tavolo di senatori della sinistra, dal Pd a Sel, che si ritrovano ogni tanto. C'è Ugo Sposetti, l'uomo che ha ancora oggi in tasca le chiavi della casa del vecchio Pci, il sottosegretario Pizzetti, Stefano Uras e Dario Stefano dissidenti di Sel a cui piace Pisapia, e tanti altri. Una dozzina. C'è anche Massimo Caleo, senatore del pd spezzino, un orlandiano, dalla cui bocca escono ancora una volta le ambizioni o le illusioni dell'«altro Pd». «Bisogna aspettare - osserva - il combinato disposto tra il confronto su una legge elettorale che preveda il premio di coalizione e una sconfitta nelle amministrative siciliane. Potrebbe partire da lì l'ultima spinta per un'intesa tra Orlando e Franceschini. Magari con la benedizione di Prodi».

Già, Prodi; in un'altra sala del ristorante c'è, per puro caso, anche Arturo Parisi, il consigliere politico del Professore, che guarda con attenzione a questi movimenti, senza sbilanciarsi. «La verità - spiega - ed è un paradosso che lo dica io, è che tutto dipende da Berlusconi, se accetta di fare una legge maggioritaria con premio di coalizione, pure nella versione che vuole lui, le cose possono cambiare».

Questi sono i contorni dell'operazione che punta a disarcionare Renzi o a ridimensionarlo ulteriormente. Il «piano» c'è, ma sul risultato nessuno scommette. Di sicuro nelle ultime settimane Dario Franceschini ha fatto il giro delle sette chiese dei padri putativi del Pd: dal Quirinale a casa Prodi; qualche segnale il ministro dei Beni culturali lo ha mandato addirittura ad Enrico Letta, con cui non corre buon sangue, per vedere se è possibile far partire l'operazione delle idi d'ottobre. Ha ricevuto risposte contraddittorie: i più non se la sentono di mettere nei guai un Pd già inguaiato; al massimo, come Prodi, offrono dei silenzi interlocutori. Vogliono essere sicuri dell'esito prima di muoversi. Solo che il tempo non lavora sicuramente per l'«altro Pd», ma per il segretario. «Qui se non si danno una mossa - si lamenta il sottosegretario ai trasporti, Del Basso De Caro - non ci resta che prenotarci un posto nella fossa comune che Renzi ci sta scavando».

Appunto, il fattore «tempo» non è da trascurare. Più si avvicinano le elezioni, più la questione delle liste tiene banco e più aumenta la forza del segretario. «Il time limit per un'operazione contro di me - ha ammesso lo stesso Renzi con i suoi - è la fine di settembre. L'idea che hanno in mente è di far partire a settembre un nuovo Ulivo, che andrebbe da Bersani, che mollerebbe in questo caso D'Alema, fino a Pisapia, a Franceschini, per candidare alla fine quelli che non candidiamo noi. Forse potrei perdere qualche punto in percentuale, qualche parlamentare, sempre che superino i loro dissidi interni, ma per fare cosa? Se, per avere un ruolo, hanno intenzione di puntare ad una legge elettorale che preveda il premio di coalizione, sappiano che su questa ipotesi io mi chiudo a riccio. Io continuo ad essere per il tedesco, se Berlusconi ci sta, o, in alternativa, c'è solo l'attuale legge. Vedo che Mattarella oggi si dispiace che sia fallito il tentativo sul tedesco, ma se durante l'esame della legge alla Camera avesse fatto sentire di più la sua voce...».

Insomma, se qualcuno vuol far perdere il buonumore al segretario del Pd, deve parlare di «coalizione». Nella sua testa la coalizione ha un solo nome: Pd. Semmai punta a coprirsi, ad allargarsi sul fianco sinistro. Intanto sta corteggiando assiduamente il presidente della Camera, Laura Boldrini, per farla entrare nelle liste del Pd. Poi, ha lanciato un'operazione simpatia nei confronti di Giuliano Pisapia, quello che dovrebbe essere il leader del nuovo Ulivo. Anche la foto dell'abbraccio alla Festa dell'Unità tra Maria Elena Boschi e l'ex sindaco di Milano fa parte di questa strategia. «Maria Elena - è la confidenza che Renzi ha fatto a un amico, a leggere la rubrica di Keyser Söze su Panorama - non voleva andarci. Ma io ho insistito: Tu sei un'immagine del renzismo per cui devi incontrare Giuliano a Milano e abbracciarlo e, se lui si ritrae, devi essere comunque estremamente cordiale con lui». E avete visto come ci sono rimasti Bersani e compagni di fronte alla foto dell'abbraccio».

Già, Bersani, D'Alema e compagni: le polemiche roventi sulla foto, incomprensibili ai più, hanno un senso nella logica di un gruppo che ha fatto dell'«antirenzismo» la propria identità. Per loro ogni contaminazione con il «renzismo», si porta dietro una perdita di consenso. Per cui, può apparire un paradosso, sono i primi a preferire una legge elettorale sul modello tedesco ad una che preveda un premio di coalizione, e quindi una potenziale alleanza con Renzi; come pure, sono i primi ad essere scettici sulla congiura dell'«altro Pd» delle idi di ottobre. «Noi - conferma Maurizio Migliavacca, uomo ombra di Bersani - siamo per una legge sul modello tedesco, se Berlusconi ci sta: con il proporzionale si apre un processo politico di scomposizione e ricomposizione di poli che non hanno più senso. Se le manovre anti-Renzi nel Pd avranno successo? No, perché gli avversari interni non hanno le palle a differenza di Renzi. Lo dice uno che non sopporta Renzi. Al massimo arriverà da noi Cuperlo. Noi? Se Pisapia ci sta, faremo uno schieramento largo, altrimenti faremo la sinistra».

Così, a ben vedere, chi ha puntato ad allungare i tempi della legislatura per logorare Renzi, rischia di non avere risultati, ma solo problemi. «A settembre - annuncia lo scissionista del Pd, Paolo Corsini - sulla legge di stabilità ci stacchiamo dal governo. Per approvarla il Pd dovrà rivolgersi a Forza Italia». E, intanto, il governo Gentiloni, debole e non legittimato dal voto popolare, si è fatto sfilare da Macron il ruolo di mediatore nella crisi libica. «La verità è che io e Paolo - osserva il segretario del Pd senza acrimonia - abbiamo due filosofie diverse: io avrei fatto il diavolo a quattro per avere un posto al vertice di Parigi».

Già, più o meno quello che avrebbe fatto il Cav. Invece, nel Pd di oggi, si mettono in piedi grandi manovre, per poi, l'epilogo è dietro l'angolo, accontentarsi di qualche posto in lista in più. Il déjà vu dei riti Dc di una volta.

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