Una consultazione senza trucchi

Ormai è chiaro che la riforma della giustizia del ministro Cartabia è il minimo, minimo, minimo comun denominatore della maggioranza extra-large del governo Draghi.

Una consultazione senza  trucchi

Ormai è chiaro che la riforma della giustizia del ministro Cartabia è il minimo, minimo, minimo comun denominatore della maggioranza extra-large del governo Draghi. Una maggioranza che ha sensibilità diverse, se non addirittura opposte, sul tema. Basterebbe questo dato di fatto a rendere chiaro che la riforma in questione è una grande «incompiuta» e non poteva essere altrimenti. Al punto che l'unica vera «casta» di questo Paese, cioè quella dei magistrati, è riuscita a mantenere dei privilegi che altre categorie non hanno. Ad esempio, il doppio compenso, cioè la possibilità di essere pagati come giudici anche quando si svolge a tempo pieno un'attività diversa fuori dai tribunali, chessò, come quella di capo di gabinetto di un ministro: sommano i due stipendi e hanno il doppio contributo pensionistico. Inoltre le toghe hanno posto un veto anche al sorteggio per l'elezione dei loro rappresentanti nel Csm, l'unico strumento che avrebbe depotenziato le correnti della magistratura. Per cui il marciume descritto dall'ex presidente dell'Anm, Luca Palamara, continuerà.

Detto questo, paradossalmente, alla fine la riforma «dimezzata» sarà votata dalla stragrande maggioranza del Parlamento: da una parte per compiere almeno un piccolo passo avanti in una logica minimalista; dall'altra per non mettere in crisi il governo Draghi. Diverse ragioni, quindi, meno quella principale: l'efficacia, su cui dubitano tutti. Ecco perché i referendum sulla giustizia sono diventati ancora più importanti. Ciò che sta succedendo in Parlamento, infatti, dimostra che con la consultazione popolare si può evitare la paralisi delle mediazioni estenuanti, dei compromessi improbabili, dei veti rigidi. Ma i sabotatori di una vera riforma, i paladini dell'attuale sistema, a cominciare dal Pd (per la verità non tutto), che vogliono prendersi dei meriti al cospetto della «casta», magari per essere ricambiati in futuro in qualche processo, hanno deciso di far svolgere i referendum in un solo giorno, puntando ad evitare che raggiungano il quorum. Un modo per condizionare il voto, ostacolare la partecipazione, impedire che l'esito rappresenti il vero orientamento del Paese: è come se la Dc, per impedire il divorzio, l'aborto, il blocco della scala mobile e tutti i quesiti che nel Dopoguerra hanno cambiato i costumi del Paese, avesse imposto lo svolgimento di quei referendum in un solo giorno. A quanto pare un certo populismo e una certa sinistra non hanno lo stesso spirito democratico della Dc, anzi non lo hanno affatto. Al punto che il ministro dell'Interno, a cui spetta la decisione, ha disertato l'ultimo Cdm per evitare che i ministri di Forza Italia e Lega gli ponessero la questione. Del resto, si sa, quando c'è da prendere delle decisioni la Lamorgese è sempre altrove.

Del problema, però, dovrebbe farsi carico lo stesso premier: quel «sì» alla riforma in Parlamento anche da parte di chi nella maggioranza è critico, espresso solo per tenere in piedi il governo di

fronte ad una guerra, pretenderebbe secondo il galateo politico che Draghi mostrasse uguale sensibilità. In fondo non si tratta di fare passare i quesiti, ma di evitare che con i soliti espedienti i referendum siano truccati.

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