Tra crisi e banche fallite c'era una volta il Nord-Est

Tra crisi e banche fallite c'era una volta il Nord-Est

Prima gli imprenditori messi ko dalla crisi, ora i risparmiatori che hanno perso i soldi di una vita nel crac delle banche popolari. Ad Emilia Laugelli, psicologa della Usl Pedemontana dell'alto Vicentino, il lavoro, purtroppo, non manca. È lei a raccontarlo: «Mi viene in mente una signora di un paese vicino a Treviso. Metteva da parte e affidava i risparmi all'impiegato della banca locale, figlio di una sua amica. Per me era come andare al casolin, mi ha detto piangendo. E il casolin da noi è un'istituzione: il salumiere sotto casa che ti conosce e di cui hai una fiducia assoluta. Ogni giorno incontriamo persone, spesso anziani, che per lasciare qualche cosa a figli e nipoti hanno rinunciato alle vacanze o a un vestito nuovo. E adesso, dopo aver visto i propri sacrifici andare in fumo, vivono nello sconforto e, spesso, nella vergogna».

Dal suo ufficio all'Ospedale di Santorso, vicino a Schio, Emilia Laugelli guida il team di 12 psicologi di InOltre, un progetto avviato nel 2012 dalla Regione Veneto. Allora il problema era l'impatto che il crollo dell'economia aveva avuto sulle vite di tanti imprenditori e artigiani e per questo si pensò a un numero verde, attivo 24 ore su 24, in grado di intervenire con personale specializzato. «Nel Nord Est il lavoro coincide con la biografia personale. L'identità si fonda su quello che fai. Si spiega così perché un fallimento professionale può finire per avere conseguenze devastanti». Dagli inizi della crisi c'è chi ha parlato di centinaia di suicidi legati a cause economiche. Emilia Laugelli è prudente: «Stabilire le ragioni di un gesto così estremo è difficile. Certo, tra gli imprenditori, soprattutto nel momento peggiore della recessione, il collegamento era spesso evidente: per la scelta di farla finita proprio in azienda, che poi molto spesso era un semplice capannone o un magazzino, il luogo simbolo della propria sofferenza; oppure perché c'era un biglietto in cui si spiegavano le ragioni del suicidio e accanto alla famiglia si citava Equitalia o il peso di un affare andato male».

Anche il caso di Antonio Bedin, 69 anni, pensionato, sembra chiarissimo. Aveva impegnato tutto quello che aveva, 500mila euro, in azioni della Banca Popolare di Vicenza. Dei soldi investiti gli sono rimasti in tutto 800 euro; si è sparato qualche mese fa nella sua casa di Montebello Vicentino: «Non ce la faccio più», ha scritto. Come lui circa 200mila famiglie hanno perso i loro risparmi investiti in quote di Veneto Banca, sede a Treviso, e Popolare di Vicenza, quartier generale, appunto, nella città del Palladio. Secondo i calcoli di Unioncamere hanno visto sparire da un giorno all'altro 4 miliardi, a cui si aggiunge un miliardo di patrimonio delle aziende della zona che era stato affidato alle due popolari. Cinque miliardi in tutto che pesano non poco sull'economia della zona. E le cattive notizie non sono finite: un'ondata di licenziamenti viene ormai data per sicura: su 11mila dipendenti dei due istituti ben quattromila sarebbero di troppo.

LA GRANDE FUGA

Nel 2016 l'economia veneta è cresciuta più o meno in linea con quella nazionale (poco meno dell'1% quest'ultima, 1,1% il Pil regionale). Un dato non straordinario, specie se lo si confronta con i dati del passato e i tassi di crescita delle aree più dinamiche dell'economia italiana: l'1,4% dell'Emilia, l'1,3% della Lombardia. «Eravamo la locomotiva d'Italia, adesso siamo in media con Calabria e Sardegna» commenta Gianni Mion, per 30 anni braccio destro di Luciano e Gilberto Benetton, oggi presidente incaricato di rimettere in sesto la nuova Popolare di Vicenza (vedi anche l'intervista nella pagina accanto). Qualche settimana fa la Fondazione Nord-Est, centro di ricerca che ha nel suo capitale tutti i principali operatori economici della zona, ha presentato il suo annuale rapporto. E il tono è stato tutt'altro che trionfale. Anche per aspetti non strettamente economici. Non solo, per esempio, la popolazione del Nord Est sta diminuendo, per effetto dell'invecchiamento comune a tutto il Paese. Ma la regione appare sempre meno attraente: chi parte è più numeroso di chi arriva. Nel 2015, ultimo anno per cui si hanno i dati completi, la regione ha un saldo netto negativo legato all'emigrazione di 10mila abitanti. Ma soprattutto, a partire sono i più qualificati: negli ultimi anni l'area ha perso più di 2mila laureati e 3mila diplomati, che hanno deciso di trasferirsi all'estero. Non un grande segnale per chi voglia puntare tutto sulla modernità tecnologica delle proprie aziende.

Certo, vedere solo ombre sarebbe ingiusto. Tra le regioni italiane il Nord-Est resta l'area con la vocazione più spiccata per l'export, che raggiunge il 39% della produzione contro una media nazionale che è intorno al 28. E se poi si guarda a un altra ricerca, il tradizionale rapporto di Banca Intesa-San Paolo sui distretti industriali, si nota che tra i 15 distretti con la maggior crescita ben cinque sono in Veneto. A guidare la classifica è l'area del Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene; vengono poi le aziende dell'occhialeria di Belluno, il polo alimentare della zona di Verona, il settore delle materie plastiche sparso tra Treviso, Vicenza e Padova, le aziende della termomeccanica del Veronese.

IL MODELLO IN CRISI

Eppure il modello Nord Est resta un ricordo un po' appassito. Una sensazione rafforzata dalle incognite che circondano alcuni marchi che a suo tempo si erano quasi identificati con l'immagine del sistema produttivo veneto. Il futuro di Stefanel, è per esempio affidato a un difficile rilancio e alle decisione del tribunale a cui è affidata la procedura pre-fallimentare. La Benetton (i maglioncini, l'unica area del gruppo familiare con solida base in Veneto) ha giubilato poche settimane fa l'ennesimo amministratore delegato e dal 2012 non fa un euro di utile.

Quanto a Luxottica, una delle corazzate regionali, è alle prese con la complessa fusione con i francesi di Essilor che potrebbe mettere in discussione gli assetti locali del gruppo. «Con la grande crisi economica è cambiato il mondo e le difficoltà sono venute alla luce» dice Francesco Peghin, presidente di Fondazione Nord Est, imprenditore metalmeccanico, già presidente di Confindustria Padova. «Il policentrismo, per esempio. In passato è stato il simbolo della vitalità di tutti i territori della regione. Poi ha mostrato il volto del campanilismo, dell'incapacità di mettere a fatture comune le risorse: dalla finanza al rapporto con le università e i centri di innovazione tecnologica». Rispetto al passato c'è un dato, preoccupante, in più: «Le cifre mostrano una sempre maggiore polarizzazione del sistema produttivo», spiega Peghin. «Cresce il distacco tra le aziende di vertice, le medie imprese internazionalizzate, e tutte le altre, che fanno molta fatica a inseguire».

LA RIVOLUZIONE DEL NORD

Tra le aziende di vertice non mancano i nuovi arrivi, sintomo di un capitalismo che non ha perso la sua energia creativa. Katia da Ros, laurea in economia nella veneziana Ca' Foscari e studi ad Harvard, guida l'impresa fondata dal padre a Corbanese di Tarzo, vicino a Treviso. Irinox, così si chiama, ha di fatto creato un nuovo settore: nata come laboratorio specializzato in quadri elettrici ha sviluppato grazie ad alcuni brevetti l'abbattitore di temperatura, in grado di surgelare il più in fretta possibile i cibi, in modo da conservarne al meglio le caratteristiche. Il gadget ha fatto breccia tra chef stellati e pasticcerie di grido. Il risultato è che la crescita del fatturato (oggi superiore ai 50 milioni) è stata negli ultimi anni sempre a due cifre e il prodotto viene esportato in 80 Paesi. «Quello del Nord Est è stato un modello che ha funzionato, un laboratorio di coraggio e di voglia di fare», dice la da Ros. «Naturalmente ogni ciclo vive fasi diverse e se non si evolve è destinato a finire. Da noi in passato la famiglia è stata un punto di forza, ma anche un limite alla crescita. Il compito dei giovani imprenditori è quello di rimettere in discussione il modello tradizionale. E la prima cosa da fare è aprire all'esterno l'azienda, managerializzarla, alzare il livello delle competenze. Il principio è che non c'è più un cavaliere bianco solo al comando, l'imprenditore vecchio stile, che tutto sa dell'azienda e con cui l'azienda si identifica totalmente. Oggi le cose si sono fatte più complicate».

A sparigliare i termini del problema è Giuseppe Berta, docente di storia contemporanea alla Bocconi di Milano. «Il modello Nord Est è durato una stagione, semplicemente perché il Nord Est come lo pensavamo una volta non esiste più, così come non esiste più il vecchio triangolo industriale. Il Nord Ovest era l'area delle grandi imprese fordiste e il Veneto si definiva per differenza, come il luogo della media azienda, dello spontaneismo imprenditoriale. Le grandi industrie sono sparite, identificare Torino come sede della Fiat ormai globalizzata è un errore. Oggi la più grande azienda torinese è la Lavazza. Le due parti dell'Italia del Nord sono andate convergendo verso un unico modello di media azienda internazionalizzata.

E dunque oggi esiste solo il Nord, un grande bacino padano che va dal Veneto al Piemonte, che vede Milano come cerniera e tende sempre più a integrarsi con l'Italia centrale. E il problema vero è che questo blocco si sta allontanando dal Sud, che non tiene il passo ed è sempre più in difficoltà».

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