Dignità al processo e spirito garantista

È una legge che traccia il solco: anche se, tecnicamente, più che una legge bavaglio è una legge bavaglino

Dignità al processo e spirito garantista
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È una legge che traccia il solco: anche se, tecnicamente, più che una legge bavaglio è una legge bavaglino, quello che si mette al collo dei poppanti per non sporcare, sbrodolare, macchiare, ciò che i cronisti della giudiziaria fanno da trent'anni con presunte «notizie» che in pratica sono solo delle accuse che giustificano l'esistenza di un'indagine, quindi carte, verbali, intercettazioni e tesi di parte (una sola parte) che un giorno dovranno reggere l'unico vaglio che conta, ossia un pubblico processo. In tutto il mondo civile le indagini restano perlopiù segrete ed è appunto il processo a essere pubblico, ma, da noi, si perpetua una deformazione che da Mani pulite in poi (1992) ha teso a concentrare ogni attenzione mediatica sulle indagini preliminari, tralasciando poi, complice la lentezza dei tribunali, quel dibattimento-processo che dovrà distinguere il vero dal falso e la verità (giudiziaria) dalle campagne politico/mediatiche. È per questo che il cronista-poppante ora strilla e straparla di libertà d'informazione violata: perché rischia di non ritrovarsi più la pappa pronta, cucinata da magistrati o avvocati o cancellieri che per proprie convenienze passano ai giornalisti materiale testuale visto-si-stampi. Nulla, in realtà, vieterà al cronista di pubblicare le informazioni che avrà raccolto: ma impedirgli di fare un mero copia/incolla degli elementi d'accusa (che spesso si traduce in titoli forzati) lo costringerà a recuperare il vecchio mestiere giornalistico di chi spiega, contestualizza e inquadra delle indagini per quello che banalmente sono. La tendenza a colpevolizzare dei semplici indagati non può essere attribuita solo all'ineducazione civica di chi legge, ma soprattutto all'ineducazione professionale di chi scrive: soprattutto a fronte delle tante e troppe assoluzioni che non corrispondono alle accuse iniziali, ma hanno lasciato ugualmente danni e strascichi.

Intervistato dallo scrivente, nella primavera del 1992, il professor Giandomenico Pisapia (presidente della commissione per la riforma del Nuovo Codice) disse testualmente: « È il processo che è pubblico, non le indagini. Il Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c'è e serve a tutelare sia le indagini sia l'indagato, che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione». Disse questo ma sappiamo com'è andata. Dapprima, stesso anno, il vicepresidente del Csm aveva confermato: «La stampa deve intervenire solo alla fine delle indagini». Nel Nuovo Codice, poi, il carcere preventivo era stato sostituito da una «custodia cautelare» da adottarsi come «extrema ratio», ossia rimedio estremo, eccezionale, ultima possibile soluzione dopo che ogni altra via era stata tentata. C'era scritto così: e anche su questo sappiamo com'è andata.

Tutte le riforme del Guardasigilli Carlo Nordio, ora, tendono a farci recuperare la mentalità garantista di un Codice che la prassi «rivoluzionaria» ha stravolto e invertito: c'è solo da capire se potremo fidarci di chi, ogni riforma, ora come allora, dovrà applicarla.

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