“Una vasta area della Sassonia è sott'acqua; si pensa che siano perite centinaia di persone e i danni causati dall'inondazione successiva alla tempesta di sabato sono incalcolabili. Le acque hanno invaso la valle raggiungendo un'altezza tra i cinque e i sette piedi, trascinando tutto con sé”. No, non è l'incipit di un articolo inerente alla tragica alluvione che ha colpito Germania, Belgio e Olanda lo scorso 15 luglio che ha causato più di 100 vittime e un numero impressionante di dispersi (circa 1300), bensì l'inizio di un articolo del New York Times del 24 luglio 1927.
Un evento catastrofico, avvenuto il 10 luglio di quell'anno, che ai tempi era stato definito “il peggiore in 50 anni” e che ebbe ripercussioni anche in Italia, con effetti definiti “particolarmente distruttivi” al centro e al nord.
Le similitudini tra i due fenomeni non si limitano all'arco temporale in cui sono avvenuti (la parte centrale del mese di luglio): entrambi sono stati preceduti da una forte ondata di calore. Sempre nel Nyt di quel luglio 1927 si legge che “gli esperti attribuiscono il fenomeno catastrofico all'usuale ondata di caldo avvenuta in Germania nei giorni precedenti” che, scontratasi con una zona di bassa pressione artica, ha causato la genesi di violente tempeste. Qualcosa che ricorda molto quanto accaduto nei giorni scorsi e che ha causato la distruzione nella Renania-Palatinato. Un fatto “usuale” secondo gli esperti dell'epoca, dovuto alla particolare geografia dell'Europa Centrale, dove non ci sono alte catene montuose a proteggere il territorio dalle incursioni di aria fredda artica, che quando si scontra con quella calda e umida delle estati continentali può dare luogo a fenomeni meteorologici molto intesi, perfino disastrosi. Nihil sub sole novi quindi, pur nella sua tragicità.
Occorre quindi fare una riflessione su quanto accaduto e sulla narrazione che se ne sta facendo, pur con la consapevolezza che, in questo momento, ci sono persone che hanno perso tutto, anche la vita. Partiamo da un presupposto: i cambiamenti climatici sono un dato di fatto. Le temperature medie dell'emisfero boreale sono aumentate, il ghiaccio ricopre per meno giorni l'anno le distese del Mar Glaciale Artico rendendolo navigabile per più tempo (da qui la corsa alla Northern Sea Route). Che ogni evento atmosferico catastrofico sia però da attribuire ai cambiamenti climatici in atto non è corretto, ed è un facile paravento per celare la propria memoria corta.
Sì, perché se c'è una cosa che l'uomo proprio non è capace di fare è quella di ricordarsi degli eventi storici, anche se non sono così lontani nel tempo come la disastrosa alluvione dell'Europa Centrale del 1927. Lo vediamo ad ogni terremoto: dopo la distruzione e la morte, il sentore comune è sempre quello dello stupore per il verificarsi di un evento così catastrofico. Eppure la terra ha sempre tremato, così come i vulcani hanno sempre eruttato, e le tempeste violente ci sono sempre state, e basterebbe guardarsi indietro per capire che certi fenomeni hanno un tempo di ritorno che si può quantificare, più o meno, e che ogni lustro o decennio di ritardo nel loro ripresentarsi è solo tempo guadagnato al disastro.
Disastro. Sì. Perché se c'è un'altra cosa che l'uomo non impara mai è rimediare ai propri errori. L'ultima eruzione del Vesuvio, uno dei vulcani più pericolosi del mondo, è del 1944, eppure nel secondo dopo guerra nessuno ha pensato che si dovesse evitare di costruire selvaggiamente sulle sue pendici. Nessuno pensa, dopo le alluvioni o le esondazioni dei fiumi, che i corsi d'acqua, piccoli o grandi che siano, hanno bisogno di evolversi, di muoversi, di trovare il loro equilibrio e pertanto necessitano di una fascia di rispetto.
Nessuno mai pensa che se un terremoto ha distrutto Messina nel 1908 (con tanto di maremoto), quest'evento particolarmente violento, sebbene eccezionale, può ripresentarsi dopo un certo lasso di tempo (stimabile tra i 100 e i 200 anni): quello che, come detto, viene definito “tempo di ritorno”. Più un evento è violento, in linea di massima, più ha un tempo di ritorno lungo – misurabile in decenni, secoli, perfino decine di migliaia di anni per certi eventi geologici particolarmente catastrofici – ed è proprio questo il guaio: il suo ricordo svanisce nel tempo, restando affidato solamente alla memoria scritta e polverosa di qualche cronaca del medioevo o di qualche quotidiano del secolo scorso.
Il cambiamento climatico non può essere il capro espiatorio per qualsiasi pioggia torrenziale, siccità o inondazione. Non possiamo ciecamente pensare che tutto sia causato dalla modificazione del clima (di origina antropica o meno, non è questo il punto) e quindi dimenticarci che certi fenomeni ci sono sempre stati e che quindi bisogna coesistere con essi, il che significa coesistere con l'ambiente che ci circonda, quindi trovare un equilibrio tra la presenza umana e i normali, ciclici, eventi naturali.
Diffondere la cultura ambientale non significa scendere in piazza come delle pecore ammansite per Greta Thunberg e “per il clima”, significa conoscere il territorio in cui si vive, conoscerne le dinamiche di corto, medio, lungo e lunghissimo periodo, per capire quello che si può fare ma soprattutto quello che non si può fare: chi costruisce una casa sulla golena di un fiume, o sulla sabbia in riva al mare, non deve poi stupirsi quando le acque gliela porteranno via, non deve lamentarsi per “i cambiamenti climatici”.
Il cambiamento climatico, come già detto, non deve essere il paravento dietro il quale nascondiamo la nostra memoria corta e la nostra ignoranza ambientale, un'ignoranza che, peraltro, i nostri nonni e bisnonni mostravano spesso di non avere.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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