Hanno portato via le bare. Adesso non hanno davvero più niente. Nemmeno le espressioni. Le riconoscevi così le facce di chi c'era e di chi non c'era sotto le macerie a lottare e a perdere. Gli abitanti di Amatrice e quelli dei paesi vicini, i parenti delle vittime, i volontari della Croce Rossa, gli uomini e le donne della Protezione civile, dell'esercito... Avevano tutti le stesse facce quelli che si sono graffiati le mani, impolverati i capelli, tumefatti col pianto. C'erano «loro» e poi c'erano «gli altri». Anche se mai come questa volta erano tutti mischiati assieme in una massa indistinta, spalla a spalla, gomito a gomito, respirandosi addosso in pochi metri sotto un cielo umido. Il Palazzo, il Popolo, la Chiesa. Eppure... C'erano le giacche scure della politica, gli abiti talari, i paramenti sacri, le fasce tricolore e le alte uniformi: ma erano gli «altri». E poi c'erano «loro» che sono sempre stati, oppure sono diventati una «comunità». «Loro» con i giubbotti per la pioggia (perché ieri pioveva pure ad Amatrice) con le felpe, con i piumini recuperati da qualche parte. «Loro» sfollati, disorientati e vestiti in qualche modo. «Loro» che assomigliavano più al Cristo a penzoloni e senza croce, appeso con una corda al tetto di un tendone di plastica più che alla Madonna della neve, luccicante e in prestito. «Loro» che si sdraiavano sulle bare e non sentivano più le parole. «Loro» seduti sulle sedie di plastica accanto ai propri morti. E quei fogli di carta appiccicati con lo scotch sulle casse: «Casini Eugenio, numero 18».
La ghiaia a far da pavimento e la pioggia a provocare ancora. Come se tutto non avesse già chiesto abbastanza a tutti.
E quel relitto di palazzo sbriciolato dietro all'altare a ricordare che è venuto giù tutto, che non c'è più niente e non ci sono più in tanti. Ventotto bare sdraiate una accanto all'altra, due erano bianche e piccolissime.
C'era ogni corpo delle forze dell'ordine a caricarsi sulle spalle quei morti. C'era ogni corpo delle forze dell'ordine a sentire proprio quel peso che gli premeva alla base del collo. Lo spigolo della bara come una fitta. Procedevano a gruppi di sei alla volta col mento malfermo e i sassi che scricchiolavano sotto le suole.
E c'erano i volontari e le volontarie della Croce Rossa accovacciati ad accarezzare teste, a prendere i battiti, a raccogliere gli svenimenti da dolore, a riportare di qua chi ci è rimasto solo col corpo.
A intromettersi negli sguardi che fissavano il vuoto, a interrompere sorrisi che erano paralisi, sorrisi innaturali e agghiaccianti che masticavano rassegnazione e rabbia e sconfitta.
Gli hanno portato via le bare. Adesso non hanno davvero più niente. Le case crollate, abiti, mobili, fotografie, quaderni... tutto perduto. E la grandine e il freddo e i loro morti da qualche parte. Perché anche il cimitero è inagibile.
Ma il funerale ormai c'è stato. Ed è stato solenne (come se qualche funerale non lo fosse...) e le telecamere hanno spostato inquadrature e i politici sono ripartiti per Roma in elicottero dopo aver abbracciato e rassicurato un sacco di gente: tranquilli, non siete soli, non vi lasceremo soli.
Sono morti figli, madri, padri, nonni, fidanzate... Qualcuno è solo per forza. E al buio e al freddo e senza casa e senza la vita che aveva prima. Chalet provvisori, catini di plastica, giacche in prestito e sgomento. Perché ormai nessuno sa più perché ha calpestato la terra finora. Perché ha lavorato, si è battezzato, ha messo al mondo bambini, ha pagato, ha pianto, si è ubriacato, laureato, sposato...
Tocca reinventare tutto, ancora prima di ricostruire tutto. Trovare un motivo per stare al mondo. Di nuovo.
Magari a metà vita, o addirittura verso il finire della vita per i sopravvissuti più anziani.Daccapo, all'improvviso, soli e senza casa. Saranno anche stati solenni, ma temiamo che andranno a finire come va a finire ogni funerale: ti strappano via la salma e si resta soli.
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