"Ha ucciso il collega con una testata". Albanese condannato

Un ventiseienne è stato condannato a sette anni di reclusione con l'accusa di aver ucciso un collega. Dopo la conferma della condanna in appello, sarà la Cassazione ad avere l'ultima parola

Una pattuglia dei carabinieri (foto di repertorio)
Una pattuglia dei carabinieri (foto di repertorio)

I primi due gradi di giudizio lo hanno visto colpevole del reato contestatogli. Ma entro la fine del mese sarà la Cassazione ad avere l'ultima parola, con l'udienza che si terrà a Roma. L'accusa? Aver ucciso un collega di lavoro sferrandogli una testata, violenta al punto da causargli ferite profonde e condurlo sino alla morte. Protagonista della vicenda è un ventiseienne albanese, residente a Santa Maria a Monte (in provincia di Pisa) condannato in primo grado a sette anni di reclusione per l'omicidio preterintenzionale di un quarantaseienne padre di famiglia con cui lavorava da tempo.

L'uomo si è sin qui sempre detto innocente, tuttavia lo scorso anno anche la corte d'appello di Firenze ha confermato la precedente decisione dei magistrati. Cos'è successo, nel dettaglio? Stando alle ricostruzioni effettuate dai carabinieri di Pontedera, i fatti si riferiscono ormai a più di quattro anni fa. Nel marzo del 2018 infatti, i due colleghi si sarebbero incontrati negli spogliatoi dell'azienda per la quale entrambi lavoravano, alla fine di un turno lavorativo all'apparenza come tanti. I diretti interessati non erano evidentemente dello stesso avviso, con il senno di poi: un primo confronto per chiarire in via definitiva incompresioni precedentemente sorte avrebbe anzi ottenuto l'effetto contrario, degenerando rapidamente in una discussione particolarmente accesa.

Sarebbero quindi volate parole grosse e all'improvviso il più giovane dei due avrebbe sferrato una violento colpo di testa in pieno volto all'altro. Una testata così forte e repentina che, secondo l'accusa, fu la causa principale che portò al decesso del rivale (con il quale l'imputato avrebbe avuto una serie di screzi in passato) a causa delle lesioni riportate. Per contro, la difesa ha puntato sul fatto che il defunto, quando fu soccorso a seguito dell'accaduto, prima di esalare l'ultimo respiro non fece mai il nome dell'aggressore ad inquirenti e soccorritori giunti sul posto. E la magistratura, sempre a detta dei legali difensivi, non avrebbe tenuto conto di alcune testimonianze che potrebbero scagiornarlo.

A complicare ulteriormente il quadro, l'assenza di testimoni oculari e di riprese del circuito di videosorveglianza all'interno dei locali, evidentemente non in funzione in quel frangente. Due elementi che avrebbero certamente contribuito a fornire uno scenario ancor più chiaro.

In assenza degli stessi il giovane, come detto, in questo quadriennio ha più volte ribadito la propria innocenza. Saranno a questo punto i giudici di legittimità ad emettere la sentenza definitiva, dopo aver passato al vaglio le integrazioni emerse nel frattempo.

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