Imam radicali tra soldi e proselitismo: Genova porta del jihad nella Ue

Dalla moschea di Genova spediti soldi alle cellule del Califfato. Ecco tutti i legami tra le comunità musulmane italiano e il terrore islamista

Imam radicali tra soldi e proselitismo: Genova porta del jihad nella Ue

L'imam della moschea al-Fajer di Genova, l'albanese Enes Bledar Brestha, sembra acquisire un ruolo di primo piano nell’inchiesta che ha portato all’arresto del siriano Mahmoud Jrad, ventitreenne residente a Varese. Nell’indagine sono coinvolti anche altri due imam arabi del capoluogo ligure e un cittadino albanese già noto per aver inviato mail di minaccia alle sedi diplomatiche di Usa e Israele in Italia nel 2010.

Dalle informazioni trapelate risultano subito alcuni aspetti interessanti:

  • Tra i centri islamici finiti nell’inchiesta c’è anche la "As-Salam" di Vico Amandorla, la stessa frequentata da Giuliano Delnevo, il convertito morto in Siria nel 2013 mentre combatteva nelle file di Jabhat al-Nusra. Curiosamente pare che anche Mahmoud Jrad avesse intenzione di arruolarsi con Jabhat al- Nusra, non con l'Isis.
  • Bledar Breshta si era creato la reputazione di “sapiente” in seguito a dei suoi studi dottrinari in Siria (come dichiarato da egli stesso in un’intervista), tanto da gestire diverse pagine come "forumiselefi.net" e "Rruga e Selefeve", mentre dall’Albania venivano segnalate altri siti frequentati dall’imam, tutti di stampo salafita, come wwd.selefi.org.
  • Emergevano altre informazioni su trasferimenti di denaro effettuati da Breshta, tramite Western Union, ad alcuni esponenti dell’Islam radicale in Kosovo e Albania, tutti già noti agli inquirenti.
  • Il 10 febbraio 2016 Breshta aveva preso parte all'iniziativa "Moschee Aperte: un laboratorio sulla convivenza", organizzata a Genova dal Secolo XIX, come illustrato in un articolo di Che Fare. L’incontro presso la moschea di piazza Durazzo doveva essere “la prima tappa della passeggiata interculturale alla scoperta della comunità musulmana del centro storico, per la promozione del dialogo e la tolleranza". 1 In quell’occasione Bledar Brestha aveva approfittato per ribadire l’importanza della separazione tra uomo e donna all’interno del luogo di culto, generando perplessità da parte di un esponente della sinistra locale.
  • La moschea in questione e Bledar erano inoltre già apparsi sulla stampa locale nel 2013 e risultavano ben noti all’interno del contesto islamico locale, come mostra un pezzo di Repubblica datato aprile 2013 sulle “dieci piccole moschee” del capoluogo ligure.
  • Brestha era inserito in un gruppo creato su WhatsApp, denominato Forum dei salafiti in Siria, che inneggiava all’Isis e alla guerra contro l’Iran e dove il 12 gennaio scorso criticava "l'attendismo" di una certa parte del sunnismo per non aver portato ancora l'attacco al cuore dello sciismo in Iran".

Alcune considerazioni sulla struttura locale

Se le accuse a Bledar Brestha venissero confermate, porterebbero alla luce nuovi elementi, primo fra tutti la presenza di un imam albanese/balcanico, radicato sul territorio italiano; dunque non un predicatore itinerante come abbiamo visto in altri casi con le visite di altri predicatori provenienti da oltre-Adriatico.

E’ possibile che in tutto questo tempo l’attività della rete nella quale sarebbe inserito Brestha non sia stata notata da nessuno, nemmeno dai membri della stessa comunità islamica? Nonostante gli evidenti legami con personaggi e luoghi già attenzionati in passato dagli inquirenti?

Brestha si era costruito nel tempo la reputazione di “sapiente” in seguito a studi fatti in madrasse mediorientali, esattamente come altri predicatori albanesi e kosovari attivi nei propri paesi d’origine, come ad esempio Genci Balla, Shukri Aliu, Rexhep Memishi e Nusret Imamovic (quest’ultimo arruolatosi attivamente come predicatore in Siria nelle file di Jabhat al-Nusra).

Se venisse confermata l’attività di finanziamento da parte di Brestha nei confronti di elementi e cellule in Albania e Kosovo, già noti agli inquirenti, allora ci sarebbe da chiedersi la motivazione. E’ plausibile che la diaspora radicalizzata balcanica stia cercando di rafforzare la presenza di network islamiste e jihadiste nei propri paesi d’origine per trasformare l’area in un vero e proprio “trampolino di lancio” per azioni in Ue?

Nelle pagine, nei post e in alcune prediche fatte dall’imam albanese emergono tutti gli elementi tipici dell’ideologia salafita presente nel radicalismo jihadista e che bypassa la differenziazione tra Isis e al-Nusra (gruppi antagonisti in contesto siriano, seppur ideologicamente vicini) per focalizzarsi sul sentimento anti-sciita ed anti- alawita. Una peculiarità riscontrabile proprio nel radicalismo balcanico, non soltanto con frequente passaggio di volontari da un gruppo all’altro ma anche con reciproca tolleranza (come dimostrano le posizioni tra Bilal Bosnic e Nusret Imamovic in Bosnia).

Il jihadismo balcanico in Italia e i collegamenti con Bosnia, Albania e Kosovo Negli ultimi quattro anni il radicalismo islamista ha preso sempre più piede in Italia, come dimostrano le varie operazioni messe in atto a partire dall’estate del 2014, quasi sempre di livello transnazionale con Albania, Kosovo e Bosnia, operazione come “Damasco”, “Balkan Connection”, “Van Damme” e “Martese”.

Numerosissimi i soggetti balcanici finiti al centro di indagini: Idriz Elvis Elezi e suo zio Alban. Aldo Kobuzi (marito di Maria Gulia Sergio) assieme alla madre Donika, lo zio Coku Baki e il cognato Mariglen Dervishllari, a loro volta collegati alla cellula jihadista albanese di Genci Balla e Bujar Hysa. Il giro kosovaro degli Imishti, a loro volta collegati al “macellaio” Lavdrim Muhaxheri. Non dimentichiamo inoltre le visite in Italia di personaggi come Bilal Bosnic, Idriz Bilibani, Mazllam Mazllami, Shefqet Krasniqi.

C’è poi tutto il filone legato a Bilal Bosnic che vede coinvolti Ismar Mesinovic, Munifer Karamaleski, Elmir Avmedoski, Arslan Osmanoski, Redjep Lijmani, Ahjan Veapi.

Insomma, il jihadismo balcanico è un rischio serio per l’Italia e gli sviluppi sulla network genovese vanno seguiti con attenzione perché potremmo trovarci davanti al primo caso di network con sostanziale contributo balcanico radicata da tempo in suolo italiano, maggiormente strutturata rispetto ad altre più marginali già emerse in inchieste precedenti e con collegamenti multidirezionali con altre realtà non necessariamente balcaniche.

I problemi oltre-Adriatico

Oltre-Adriatico la situazione diventa nel frattempo sempre più preoccupante. Mentre in Albania la recente condanna inflitta da un tribunale di Tirana a membri della principale cellula jihadista gestita da Balla e Hysa, in Kosovo vengono segnalati campi di addestramento come il “Kampet e Zeza” citato da alcuni media albanesi e per certi aspetti simile a quello individuato nel 2012 sulle montagne nei pressi di Rastelica, entrambi definiti dalle autorità kosovare come “campeggi islamici” dove non sarebbero state trovate armi.

Vale la pena considerare che Besim Ilazi, sindaco della cittadina di Kacanik, (recentemente segnalata da fonti locali come focolaio radicale; da qui vengono Lavdrim Muhaxheri e Samet Imishti), il mese scorso ha denunciato la presenza nelle boscaglie appena fuori la città, di luoghi di ritrovo salafiti con all’esterno guardie armate che precludono l’accesso ai non autorizzati.

Un altro “campeggio islamico” veniva segnalato nel 2012 sulle montagne vicino Rastelica; iniziativa alla quale aveva partecipato anche Sead Bajraktar, imam kosovaro a capo di quel centro islamico di Monteroni d’Arbia, nel sensese, che aveva ospitato Bilal Bosnic e Idriz Bilibani.

A fine luglio emergevano poi informazioni fatte trapelare da Sputnik, al momento non confermate dalle autorità kosovare, sulla possibile presenza di altri “campeggi islamisti” nelle zone di Ferizaj, Gjakovë, Deçan, Prizren e Pejë. Tutte aree già al centro di operazioni anti-terrorismo a partire dall’agosto 2014 quando scattò quasi in contemporanea l’operazione “Damasco” in Italia e Bosnia.

Tutto ciò va attentamente valutato, non soltanto in ambito di sicurezza domestica italiana, ma anche sul piano

politico internazionale. E’ plausibile spingere per un rapido accesso di paesi come Kosovo e Bosnia nell’UE o nella Nato quando sono evidenti le relative problematiche nella gestione del pericolo jihadista oltre- Adriatico?

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