Un libro di Olivier Wieviorka, intitolato "Storia della Resistenza nell’Europa occidentale 1940-1945", riscrive le vicende della Resistenza al nazifascimo. Una analisi che rimodula la narrazione sulla grande opera dei movimenti partigiani in Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Francia e - soprattutto - Italia.
Secondo lo studioso, come riporta Paolo Mieli in una precisa recensione apparsa sul Corriere, per analizzare i movimenti della resistenza occorre evitare quattro semplificazioni in cui spesso siamo caduti. Innanzitutto, non è vero che "gli Alleati onnipotenti tirassero le fila delle resistenze locali". Secondo, è sbagliato "ritenere che queste ultime potessero svilupparsi adeguatamente senza aiuti esterni". Terzo: non bisogna "immaginare che la necessità di abbattere il nazismo abbia fatto scomparire d’un sol colpo le logiche di interesse". Ma soprattutto, non bisogna "sopravvalutare il ruolo svolto dalla dimensione nazionale della lotta comune". Tradotto: a sconfiggere il nazismo non è stato, come spesso raccontato, la Resistenza francese o quella italiana. Ma soprattutto gli Alleati inglesi e soprattutto americani.
A formulare per la prima volta l'idea di una resistenza organizzata in Europa fu il ministro dell’Economia di guerra degli inglesi, il laburista Hugh Dalton: "Dobbiamo organizzare nei territori occupati dal nemico movimenti paragonabili al Sinn Fein irlandese, alle guerriglie cinesi attualmente operative contro il Giappone, agli irregolari spagnoli che tanto peso hanno avuto nella campagna di Wellington (contro Napoleone, 1808-13) o ancora — si può ben ammetterlo — alle organizzazioni che gli stessi nazisti hanno sviluppato in modo così degno di nota in quasi tutti i paesi del mondo", scrisse in una lettera a Churchill. E così nel 1940 venne istituito il Soe (Special Operations Executive) per "incendiare l’Europa".
Ma in Italia le cose non andarono come nel resto del Vecchio Continente. Nel 1941 il capo del Soe si lamentava di quanto accadeva nel Belpaese: "Non abbiamo nessun italiano in addestramento. Non abbiamo linee in Italia (a parte due vaghi contatti con base in Svizzera); e abbiamo assolutamente fallito nel reclutamento di persone che potessero servire al Regno Unito, al Medio Oriente o a Malta".
Fino all'8 settembre del 1943, insomma, gli italiani sono "vittime" di quella che gli inglesi chiamarono "apatia politica" non riscontrata negli altri Paesi, nonostante l'alleanza di ferro tra Mussolini e Hitler. "La Gran Bretagna - scrive Wieviorka - passò di delusione in delusione".
Inizialmente provarono a far guidare il Comitato dell'Italia Libera a Carlo Petrone, rifugiato in Inghilterra dal 1939, ma il progetto naufragò con poche adesioni. Poi provarono a reclutare ribelli nelle carcere in India e Africa del Nord. Anche qui un completo fallimento. "I soldati italiani catturati - si legge nel rapporto - sono perlopiù assolutamente felici di restare prigionieri e non mostrano alcun desiderio, mosso dal denaro o da altri motivi di rientrare nel loro Paese alla ventura". Infine cercarono un "de Gaulle italiano", pensando di trovarlo (erroneamente) nel generale Annibale Bergonzoli.
Quello che riconosce alla fine l'autore del libro, sebbene sottolinei che "con o senza Resistenza, l’Europa occidentale sarebbe stata liberata dalle forze angloamericane", è che i
partigiani favorirono in qualche modo l'accelerarsi dell'operazione di conquista degli Alleati. Andando poi a riempire il vuoto di potere dopo il crollo dei vari governi collaborazionisti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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