L'ultimo viaggio verso casa di Mario Draghi, per mettersi in ghingheri prima di andare a sciogliere la riserva al Quirinale, è stato da cardiopalma. Il corteo con la scorta e la Volkswagen Passat del neo premier ha imboccato il vialone che taglia in due villa Borghese, poi ha girato a destra e ha percorso la strada semiasfaltata che esce davanti al Museo Nazionale di Arte Moderna a valle Giulia. È risalito costeggiando il giardino zoologico e, poi, ha imboccato in controsenso spettacolare via Gioacchino Rossini, passando davanti alla residenza privata dell'ambasciatore americano di villa Taverna. Con un vigile urbano che lo ha guardato sbigottito e se l'è presa con il malcapitato cronista che lo inseguiva in motorino: contravvenzione e perdita di punti sulla patente garantiti. In fondo Draghi appare calmo e flemmatico, ma poi, quando ha deciso, è determinato, sceglie una strada e la percorre fino in fondo. Lo ha fatto nella scelta dei ministri e si può star sicuri che si ripeterà nella sua esperienza a Palazzo Chigi. Ieri, ad esempio, per tutto il giorno il Quirinale ha dato i numeri: prima il presidente incaricato doveva salire al Colle per sciogliere la riserva il pomeriggio; poi sabato o addirittura lunedì. Invece, ancora con qualche casella del governo da riempire, Draghi alle 19 in punto si è presentato lì. Basta pensare che alle 18 e 50 Matteo Salvini messaggiava a un amico: «Non so nulla, ho un appuntamento telefonico tra dieci minuti con Draghi mentre è al Quirinale».
Il personaggio è fatto così. «Si lamentavano del decisionismo di Conte ironizzava ieri con i suoi compagni di partito l'ex ministro Francesco Boccia , ma con questo non toccheranno palla». Ieri fino all'ultimo i segretari sapevano solo qualcosa dei nomi, ma per lo più erano all'oscuro. Quando Giancarlo Giorgetti ha ricevuto la notizia che sarebbe entrato nel governo, Salvini non lo sapeva. Del resto per tutto il giorno il leader della Lega si è mostrato nervoso: «Non vorrei che alla fine io non entrerò nel governo mentre Speranza e l'attuale ministro dell'Interno, Lamorgese, che ha fatto una politica opposta alla mia, sì». Così è stato: alla fine ha avuto tre ministri, ma tutti nel dna hanno più geni leghisti che sovranisti. Come pure Matteo Renzi ignorava che grillini e piddini avessero posto un veto sulla candidatura di Teresa Bellanova al ministero del Lavoro: una sorta di vendetta postuma contro chi dentro Italia Viva era stata protagonista del siluramento di Conte. Tanto più che al suo posto i due partiti hanno indicato insieme il numero due di Zingaretti, Andrea Orlando. Così, per non scontentare Renzi, Draghi ha scelto come ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani (assiduo frequentatore della Leopolda e uno degli estensori delle proposte di Italia Viva sul Recovery plan) e ha confermato Elena Bonetti. Una scelta che ha lasciato un po' di amaro in bocca al leader di Italia Viva: «Teresa la volevo dentro perché si è sempre mostrata leale, ma probabilmente per riequilibrare dopo aver dato a Cingolani il ministero per la Transizione ecologica, Draghi poteva assegnare solo un ministero senza portafoglio alla Bonetti. Eppoi se nel Pd parlano di vendetta, farebbero bene a farsi un po' di conti: all'anima del Pd post-Pci è rimasto solo Orlando. L'asse dalemiano, che faceva il bello e il cattivo tempo nel Conte bis, non esiste più. Sono spariti Gualtieri, Amendola e Boccia. Eppoi, come faccio a non essere contento di un governo che alla Giustizia, invece, di Bonafede ha la Cartabia!».
Insomma, il governo è figlio del pragmatismo di Draghi, della sua attenzione spasmodica a soppesare gli equilibri. Del resto per riuscire ad entrare nella rosa le vecchie volpi democristiane, Lorenzo Guerini e Dario Franceschini, si sono affidate addirittura più a Sergio Mattarella, che non al Pd: sono diventate una sorta di «quota Quirinale» nel governo Draghi. Per non parlare di Forza Italia, quella più moderata, europeista e vicina a Gianni Letta è stata premiata con tre posti su tre: Gelmini, Brunetta e Carfagna. Lo stesso Berlusconi per dire come sono andate le cose aveva in mente altri nomi.
Tutto questo preannuncia quali saranno gli equilibri nel prossimo governo. Il baricentro della maggioranza più ampia della storia della Repubblica si sposta, infatti, marcatamente verso il centro. Per individuarlo con maggior precisione bisognerà attendere quanti parlamentari perderanno i 5stelle e le premesse dimostrano che non saranno pochi. Ieri Antonio Atte dell'Adnkronos ha fatto una mappa attenta del dissenso 5 Stelle e ha valutato che tra Camera e Senato potrebbero fare le valigie più di una ventina di parlamentari. La conferma si è avuta in serata nelle chat dei gruppi di Camera e Senato dove in molti hanno accusato il gruppo dirigente di aver dato il via libera ad un governo in cui Forza Italia e Lega contano più del movimento: «Ci hanno asfaltato», ha scritto Yana Ehm, una parlamentare grillina di origine straniera. Se Giorgia Meloni avesse osato di più, non avesse scelto la strada dell'autoemarginazione, lo slittamento del baricentro di questa maggioranza di governo verso destra sarebbe stato ancora più evidente.
Questi equilibri si rifletteranno, ovviamente, anche nell'attività del Parlamento. A parte i punti strategici del governo Draghi, ad esempio, su alcuni temi come gli emendamenti sulla prescrizione contenuti nel Milleproroghe - alcune forze della ex maggioranza si sentiranno più libere, potranno dire dei Sì che, invece, i vincoli del perimetro della maggioranza del Conte bis impedivano. In primo luogo i renziani. È il timore che serpeggia tra Zingaretti e i suoi, che li impaurisce: «Ecco perché ha teorizzato il segretario del Pd dobbiamo tenere uniti Pd, grillini e Leu. Dobbiamo mantenere un collante, formare una maggioranza coesa dentro la nuova maggioranza del governo Draghi». Solo che se i numeri dei giallorossi, forse, valgono ancora alla Camera, non offrono, però, nessuna garanzia per il Senato. Motivo per cui bisognerà andare avanti di compromesso in compromesso e in questa situazione l'ultima parola l'avrà com'è ovvio - il nuovo premier.
Ad esempio, sarà complicato mantenere al suo posto il commissario Arcuri: troppi incarichi e pochi risultati, un'equazione che fa a botte con la filosofia di Draghi. «In una maggioranza così ampia chiosa Matteo Renzi contiamo tutti e non conta nessuno. Ma se Salvini è intelligente ci divertiremo. Davvero un mondo!».
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